
Rodney Dangerfield, il profeta dell’autoironia e del caos comico
Prosegue il mio invernale letargo sociale dal quale solo la mia pitbull Noël riesce a destarmi. Mentre le gratto la pancia mi muovo tra i vari canali in cerca di qualcosa che possa dare un senso alla serata. Finisco su un canale dove è cominciato da pochissimi minuti il film cult Natural Born Killers- Assassini Nati del 1994 diretto da Oliver Stone. Un grandissimo filmone, sempre dannatamente attuale, che fa sempre piacere rivedere. Mi viene in mente la scena in cui, con geniale ironia, viene toccato un argomento delicato come quelle delle molestie domestiche il primo incontro tra i due protagonisti del film sotto forma di sit com, dove il comico americano Rodney Dangerfield tiene in piedi tutto lo sketch.
La leggenda di un outsider della comicità
New York, anni Cinquanta. Il fumo delle sigarette che si impregna nei muri dei comedy club, i bicchieri di whisky mezzi pieni e un microfono gracchiante. Da qualche parte in una di quelle stanze buie e fumose c’era un uomo che sapeva di non avere rispetto perché era la frase con la quale apriva i suoi spettacoli. Rodney Dangerfield, il comico che fece della propria insicurezza un’arte, non stava cercando di essere una star. Come qualsiasi altro comune mortale stava solo cercando di pagare l’affitto e far ridere la gente.

Ma non è così che funziona la grandezza. La grandezza ti morde alle caviglie finché non ti giri a darle un calcio. E Rodney, con il suo completo sgualcito e gli occhi sbarrati, finì per scalare il monte sacro della comicità americana.
La nascita di un personaggio
Al secolo Jacob Rodney Cohen, nacque a Babylon nello stato di New York nel 1921. Cresciuto in una famiglia difficile, con un padre assente e un senso dell’umorismo come unica arma di sopravvivenza, Dangerfield imparò presto che il mondo non ti regala nulla. A vent’anni iniziò ad esibirsi nei club sotto il nome di Jack Roy, ma la sua carriera non decollò. Non fu facile e non si arrese per un pelo. Si sposò, fece il venditore di alluminio per anni e condusse una vita ordinaria senza inseguire ossessivamente quel sogno. Poi, quando molti avrebbero appeso il microfono al chiodo, lui fece il contrario. Tornò sulle scene, questa volta con un personaggio preciso: Rodney Dangerfield, il re dell’autocommiserazione, l’uomo che non otteneva mai rispetto.
“I get no respect!”: Il mantra di un’epoca
Era il 1967 quando si reinventò completamente. La sua battuta simbolo, I get no respect! (Non ottengo rispetto!), divenne un grido di battaglia. Un mantra che lo rese riconoscibile in un’industria che non fa sconti a nessuno. Rodney non era un comico comune. Non raccontava storie, non usava satira politica. No, lui sparava battute a mitragliatrice su sé stesso come queste:
“Una volta ho chiesto a un dottore un secondo parere. Mi ha detto che ero anche brutto.”
“Quando ero piccolo, i miei genitori si trasferirono. Ma non mi dissero dove.“
“Mia moglie e io eravamo felici per vent’anni. Poi ci siamo incontrati.“
Era uno stile unico, autoironico, senza filtri. Le sue battute non erano solo gag: erano pillole di disperazione trasformate in oro comico.

Il boom televisivo e il successo tardivo
Negli anni Settanta Rodney Dangerfield diventò una presenza fissa negli show televisivi americani. Ogni sua apparizione al Tonight Show di Johnny Carson faceva esplodere il pubblico. I produttori lo amavano perché non sbagliava mai un colpo. Anche Hollywood si accorse di lui: il film Palla da Golf del 1980 lo trasformò in un’icona e pellicole quali Easy Money (1983) e Back to School (1986) consolidarono la sua reputazione di outsider geniale. Eppure, Dangerfield non si sentì mai davvero parte dell’élite comica. Lui era il ragazzo che aveva fallito, che aveva vissuto il lato oscuro della gavetta, e che era tornato solo per sputare in faccia al destino con un sorriso sghembo.
L’eredità di un maestro
Rodney Dangerfield non era solo un comico: era una lezione di vita. Dimostrò che il successo non arriva sempre in fretta e che non bisogna mai abbassare la testa. Aprì un comedy club, aiutò giovani talenti (Jim Carrey e Sam Kinison su tutti) e continuò a esibirsi fino ai suoi ultimi giorni. Morì nel 2004 lasciando dietro di sé un’eredità che ancora oggi fa scuola. Il suo nome è sinonimo di risate e di un umorismo che non si prendeva mai sul serio, proprio perché la vita lo aveva già fatto troppe volte. Se c’è una cosa che Rodney ci ha insegnato, è questa: anche quando il mondo sembra ignorarti, puoi sempre ridere di lui. E quella, forse, è la forma più alta di rispetto che puoi ottenere.
Hank Cignatta
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