
Sumo, storia di una sacra religione muscolare
Mi sveglio in una stanza d’hotel che puzza di wasabi rancido e incenso. Ho accettato l’invito ad un torneo di sumo a Tokyo senza sapere nulla, se non che ci sarebbero stati uomini giganteschi che si spingono dentro un cerchio, come se la vita dipendesse da quello. E forse sì, dipende davvero da quello. Arrivo al Ryōgoku Kokugikan, il tempio sacro del Sumo, venendo accolto da un’onda di silenzio e reverenza. È come entrare in un’arena gladiatoria gestita da monaci in kimono. Lì dentro ogni colpo, ogni respiro è una preghiera urlata al dio della forza bruta.

Guerrieri di peso e leggenda: chi sono i Rikishi
Il Sumo va oltre il concetto di sport. E’ un rituale, una droga spirituale mascherata da lotta. I lottatori (i Rikishi) pesano quanto un frigorifero carico di birra (ovvero come il sottoscritto) ma si muovono come samurai bendati dalla furia. Non sono solo grossi: sono templari. Mangiano 8.000 calorie a botta, dormono dopo pranzo per far fermentare il sudore e vivono in dormitori dove si allenano, pregano e probabilmente si sfidano a chi scoreggia più forte.

Ma attenzione: non si tratta di ciccioni simpatici. Il Rikishi è un mostro sacro. Vive sotto regole ferree, gerarchie medievali e allenamenti sadomaso. Ogni caduta è una vergogna pubblica. Ogni vittoria, una benedizione degli spiriti. Mi raccontano di un lottatore che ha perso un match e ha chiesto scusa al suo maestro con una lettera scritta con il sangue. Nessuna metafora. Sangue vero.
Il suono della carne che esplode del sumo: dentro il Dohyo
Mi fanno sedere a bordo ring, proprio laddove volano i denti. Il Dohyo è un cerchio di argilla e sale. Al centro, due montagne umane si inchinano, si fissano e poi esplodono. Non c’è nessun gong, non c’è nessun arbitro che urla: solo tensione pura. I corpi si scontrano con un rumore umido e crudo. Come un incidente stradale tra tonni.
Il Dio del Sumo ha la pancia e l’onore
Ogni rito pre-match è una cerimonia. Lanci di sale per purificare. Passi rituali. Urla che sembrano uscite da un esorcismo scintoista. Ma tutto ha un senso. Il sumo non è mai stato solo intrattenimento: è una manifestazione del Kami, lo spirito divino. Un teatro sacro dove l’onore è pesante quanto il corpo che lo porta. Ecco perché non si ride mai a un torneo di sumo. Anche quando uno dei lottatori scivola e si schianta giù dal ring come una balena senza grazia, nessuno fiata. Si inchinano, si rispettano, si battono.

Il dopo-match: sake, cicatrici e karaoke
La sera mi ritrovo in un izakaya malfamato con alcuni giovani lottatori in incognito. Bevono come scaricatori di porto in cerca di oblio. Uno mi mostra le cicatrici sotto il mawashi. Un altro canta una canzone d’amore di Utada Hikaru con una voce da contrabbasso. Parlano del futuro. Nessuno sa cosa fare dopo il sumo. Alcuni finiscono nel wrestling. Altri si ritirano a coltivare bonsai o aprono izakaya. Uno mi dice che sogna di diventare mangaka. Gli credo. Perché dopo aver sacrificato corpo e anima, puoi fare qualsiasi cosa.
Il Sumo non è uno sport: è una religione muscolare
Ecco il punto: non puoi capire il sumo se pensi in termini occidentali. Non c’è cronometro, non ci sono punti. Solo impatto. O dentro o fuori. O vivi o muori. È la versione giapponese dell’inferno dantesco, ma con più sudore e meno poesia. Ho visto il sumo, l’ho annusato, ci sono scivolato dentro come in una trappola mentale. Ne sono uscito diverso. Più stanco. Più affamato. Più consapevole che c’è un mondo dove l’onore pesa più del successo, e la forza non si misura in chili ma in pazienza.
Dietro le quinte: sesso, denaro e yakuzate
Ma sotto il kimono elegante il mondo del Sumo puzza. E non del sudore dei lottatori ma di soldi sporchi, di scommesse clandestine, di scandali sepolti come cadaveri nei boschi. La Yakuza – sì, quella Yakuza – ha avuto le mani dentro per anni. Interi tornei truccati, lottatori corrotti, allenatori mafiosi travestiti da sensei. Nel 2011, uno scandalo ha travolto tutto: telefonini sequestrati, messaggi compromettenti, confessioni soffocate sotto pressioni politiche. Alcuni lottatori vennero radiati. Ma il Sumo non muore mai. Perché è più vecchio della giustizia e più radicato dell’onestà.
Conclusione: oltre la ciccia, la verità
Il Sumo è l’ultima forma di verità non filtrata rimasta in un mondo digitalizzato. Un’arte carnale, violenta, lenta e spirituale. Un Giappone preistorico che resiste sotto strati di tecnologia e anime kawaii. Un rituale che va visto almeno una volta, da vicino, con la puzza di sudore nelle narici e il cuore che batte come un tamburo taiko. Se cercate una storia d’onore, morte e miracolI, lasciate perdere. Se volete la verità, quella grassa, sudata e imperfetta allora salite sul ring.
Hank Cignatta
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