
Izakaya, il lato sbronzo del vero Giappone
Sono in una dimensione onirica. Mi trovo a Tokyo, Giappone. Piove whisky dalle insegne. Una lanterna rossa traballa sotto l’umidità vischiosa. Dietro di essa, la porta scorrevole di un Izakaya si apre come un portale mistico. Entro. L’odore è quello di salsa di soia, sudore e mirin bruciato. La cucina scoppietta allegramente.

Questo non è un semplice bar. È un campo di battaglia. Uno spazio sacro dell’alcol giapponese, dove salarymen disfatti affogano l’onore in pinte di birra ghiacciata e shot di shochu e le risate si trasformano in lacrime tra uno spiedino di pollo e una rissa verbale.
Cos’è un Izakaya? Teoria e prassi dell’ubriacatura elegante
“Izakaya” si scrive 居酒屋: “i” (rimanere), “saka” (alcol), “ya” (negozio). Tradotto: posto dove resti a bere. Ma in realtà è molto più di questo. È una specie di tempio anarchico dove le regole sociali si piegano, dove il capo può confessare il suo divorzio al tirocinante, dove lo sconosciuto accanto a te può diventare tuo fratello fino all’ultima goccia di umeshu. A metà tra pub, trattoria e confessionale, gli izakaya sono il cuore pulsante della notte giapponese, il ventre molle e ubriaco che nessuna guida turistica osa raccontare.

Il menù dell’anima: yakitori, edamame e cicchetti esistenziali
Nel mio taccuino fradicio d’Asahi segno: “pollo, cuore, fegato, lingua, mistero”. È il menù di uno di quei minuscoli izakaya nascosti in un vicolo di Shinjuku. Il cuoco ha più cicatrici che capelli, fuma sopra i fornelli e grugnisce parole incomprensibili. Eppure ogni piatto è una poesia grigliata, ogni sorso è un haiku liquido. Non ci sono portate principali. Qui si mangia a ondate, ad istinto, esattamente come si vive. Tra le mani: karaage bollente, tofu freddo, cetriolo al miso, sake torbido come la mia coscienza.
Gli habitué: salarymen disfatti e hikikomori redenti
Accanto a me, un uomo in giacca e cravatta sbottonata fissa il nulla. Forse ha appena perso il lavoro. Forse la moglie. Forse la pazienza. Ma adesso ha tra le mani un bicchiere e davanti a sé un piatto di nikujaga. E per un attimo sorride. L’Izakaya è un rifugio psichico, una zona franca emotiva. Ci trovi di tutto: studentesse ubriache, ex-gangster convertiti alla birra artigianale, cuochi filosofi, turisti persi e ritrovati e sempre un vecchio ubriaco che ti offre un bicchiere e ti racconta la guerra.

Il rito: ordinare, bere, dimenticare
l primo sorso è sociale. Il secondo è personale. Dal terzo in poi si scivola nell’oblio. Le ordinazioni si fanno urlando. I piatti arrivano a raffica. Il conto? Diviso tra tutti, anche se tu hai preso solo due gyoza e lui ha bevuto come uno yak. Ma nessuno si lamenta. Perché l’Izakaya non è un ristorante. È una nave che affonda lentamente nel sakè e tutti hanno scelto di salirci.

Conclusione: il Giappone è un Izakaya
Il Giappone non è fatto di samurai, geishe o tecnologie. È fatto di questi luoghi piccoli, scrostati, autentici, dove l’umano trabocca. Gli izakaya sono la carne viva del paese, dove la gente finalmente smette di recitare e inizia, per qualche ora, a vivere. Non c’è guida che possa spiegartelo. Ma se vuoi, ci torniamo insieme. Il primo giro lo offro io.
Hank Cignatta
Riproduzione riservata ®
Post a Comment
Devi essere connesso per inviare un commento.