
L’ultimo jab di Nino Benvenuti, addio al gentiluomo del ring
Avevo la televisione accesa sui principali canali di sole notizie quando arriva un aggiornamento dell’ultimo minuto in redazione: Nino Benvenuti è morto. E nonostante l’Italia si affretti a gonfiare i polmoni col solito “era un eroe nazionale”, io sento che qualcosa non torna. Mi è parso più vivo ieri, in una replica in bianco e nero del ’67, che in tutte le necrologie sparate dall’istante in cui è stata divulgata la notizia della sua morte e di tutte le prime pagine dei giornali che domani si affretteranno velocemente a ricordarlo.

Di pugni e pellicola: l’uomo che trasformò il ring in teatro
La prima volta che vidi Giovanni Benvenuti detto Nino fu nel video di un suo incontro, con la voce narrante del cronista radio e tv Paolo Valenti che diceva: “Ecco l’italiano che tiene alto il nostro onore.” Era il match con Griffith, quello del 1967 al Madison Square Garden, dove Nino salì sul ring come un principe veneto e scese da campione del mondo. All’epoca la Rai terminava le trasmissioni sul suo unico canale a mezzanotte (eccezione che avvenne poi due anni dopo con la diretta dell’allunaggio di Armstrong) e a causa del fuso orario l’evento sportivo sarebbe terminato abbondantemente oltre le tre del mattino. Ciò tagliava fuori anche la pubblicazione dei giornali e l’unico mezzo per seguirlo fu l’emozionante radiocronaca proveniente da quel tempio mondiale della boxe, gremito per l’occasione in ogni ordine di grado e di posto.
Aveva qualcosa di unico: qualcosa di Fellini e di Rocky Marciano, insieme. E quella magia non gliel’ha mai tolta niente e nessuno, nemmeno il tempo.
Nino Benvenuti e La boxe come opera d’arte
Mentre i giornalisti sportivi di oggi si affrettano a numerare i suoi titoli (campione olimpico, campione mondiale, 90 match da professionista ) io preferisco ricordarlo per quella combinazione di jab e gancio sinistro che sembrava una pennellata. Guardavi Benvenuti e non pensavi al sangue. Pensavi alla grazia e alla maestria dei grandi artisti della storia dell’arte.

Non si limitava a vincere: in ogni incontro raccontava un nuovo capitolo di una grande storia a colpi di guantoni. Un novello Ulisse con il paradenti. Nino, in fondo, ha sempre combattuto per la bellezza. E’ stato il testimone di un modo di fare e di intendere la boxe che non esiste più, memoria storica di un’affascinante disciplina sportiva in crisi talmente profonda da perdere la sua vera essenza, senza più sapere chi sia davvero. Un tempo in cui gli atleti, prima di diventare campioni, erano uomini.
L’Italia che non lo meritava
C’è un dolore di fondo che mi attanaglia, scrivendo questo pezzo. Tanto nello scrivere questo coccodrillo (articolo che commemora un personaggio noto, detto in gergo giornalistico, per chi non lo sapesse) le cui lacrime sono sincere quanto per il modo in cui l’Italia l’ha dimenticato mentre era ancora vivo. Perché in questo Paese dove la polemica sterile è una triste disciplina olimpica o muori giovane o diventi un meme. E Nino non era disposto a farsi ridere dietro. Se ne è andato come ha sempre vissuto: con classe e senza troppe scenate.

Nino Benvenuti e la “pornografia” del dolore pubblico
In queste ore la macchina del lutto mediatico lo sta impacchettando come un prodotto di culto da scaffale. Clip, frasi fatte, “il campione e l’uomo”, “uomo affettuoso”, “leggenda dello sport”. Tutto vero e legittimo, ci mancherebbe. Eppure così noiosamente falso. Perché Benvenuti non era la somma delle sue imprese ma ne era la sfumatura. L’intonazione. Quel modo di mettere i guantoni come se si stesse infilando i gemelli della camicia. La boxe come galanteria in salsa balcanica, eredità di un confine – quello triestino – che l’ha reso europeo prima che diventasse moda esserlo.

L’ultimo round di Nino Benvenuti
E allora eccoci qua. In piedi, in silenzio, mentre la campana dell’ultimo round rintocca nei corridoi della memoria. Nino Benvenuti, il pugile che danzava sul ring con la grazie di un ballerino e colpiva con la potenza di un tuono, è andato nell’altra dimensione consegnando la sua figura terrena alla leggenda. E a chi oggi cerca di ridurlo a statua, a nome di palasport, a francobollo commemorativo, deve essere chiara una cosa: Nino Benvenuti è troppo vivo per morire davvero. Polemicamente vostro.
Hank Cignatta
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