L’onda eterna di Brian Wilson

L’onda eterna di Brian Wilson

Sono settimane frenetiche per la gonzitudine e la redazione di Bad Literature Inc. Io e il mio socio Alan Comoretto siamo impegnati a promuovere il nostro giornale in giro per l’Italia, a concludere collaborazioni e prossimi progetti e le nostre stanche e pesanti ossa vengono spostate tra aerei e treni. Nel mentre il mondo sta impazzendo e la notizia della morte di Brian Wilson, fondatore dei Beach Boys, non pteva rimanere senza l’umile tributo del povero bastardo che vi scrive.

Addio a Brian Wilson, il Mozart delle onde

Il mondo ha appena perso Brian Wilson. O forse no. Forse è stato il mondo a perdersi, troppo impegnato a scrollare, cliccare, disdire abbonamenti o a bombardare, per accorgersi che uno dei più grandi compositori del Novecento era ancora vivo, e lo è stato fino a pochi giorni fa. Brian, il cervello dietro i Beach Boys, l’uomo che ha trasformato l’innocenza della surf music in sinfonia psichedelica, ci ha salutato per sempre. O forse è solo andato a fare un giro in mare con Dennis e Carl, i suoi fratelli, con cui cantava a quattro voci e litigava a cinque.

I Beach Boys. Da sinistra: Al Jardine, Mike Love, Brian Wilson, Carl Wilson e Dennis Wilson

La California come allucinazione condivisa

Quando si parla di Brian Wilson ci si dimentica che la California di metà anni Sessanta non era ancora la Disneyland del wellness e dei podcast motivazionali. Era un teatro di guerra esistenziale. E Brian, con le sue orecchie da veggente e il suo cuore in frantumi, ha deciso che non voleva più cantare di ragazze in bikini e tavole da surf. Lui voleva parlare con Dio. Letteralmente. “God Only Knows” non è solo una canzone. È un’invocazione cosmica. Una preghiera cantata in falsetto da un ragazzo che aveva paura del padre, della fama, e del silenzio.

Pet Sounds: L’LSD registrato su nastro da brian wiLSON

Nel 1966 Brian Wilson partorisce Pet Sounds, un disco che ancora oggi viene studiato nelle università come un miracolo acustico. Ma quella roba lì non si insegna. Si subisce. È la Bibbia dei musicisti nevrotici, il vangelo secondo un uomo che non saliva più sui palchi perché sentiva le voci nella doccia. Wilson registrava in uno studio trasformato in zoo: cani, campane da bicicletta, bottiglie di Coca Cola suonate come xilofoni. Era fuori controllo, ma perfettamente in sintonia con qualcosa che il resto del mondo non poteva ( o non voleva) sentire.

Brian Wilson in studio di registrazione durante Pet Sound

Smile: il capolavoro maledetto

Poi arrivò Smile, il disco mai finito, il sogno infranto, il “Quarto Stato” della psichedelia americana. Brian lo voleva più grande dei Beatles, più potente dell’LSD. Ma il suo cervello, gonfio di acido e paranoie, si è rotto come una tavola da surf in un’onda troppo alta. Il progetto è affondato. Lui pure. E mentre il rock prendeva la via dei Rolling Stones e della distorsione, Brian si chiudeva in casa, ingrassava e veniva sedato da un ciarlatano travestito da psichiatra che gli faceva pagare 35.000 dollari al mese per “curarlo”.

Brian Wilson, L’uomo che parlava con le armonie

Brian Wilson non era solo un musicista. Era un profeta sonoro, un costruttore di cattedrali emotive fatte di fiati, archi, e accordi impossibili. Ma era anche un uomo devastato da un padre violento, da una mente troppo brillante per stare dentro i confini del corpo umano. Eppure, negli anni Duemila, Brian è risorto. Ha portato Smile in tour, ha sorriso davanti a pubblici commossi, ha ricevuto premi, stretto mani, e provato (forse per la prima volta) a fare pace con il suo passato.

Brian Wilson e L’eredità di un outsider divino

Brian Wilson non è stato un eroe americano. È stato un UFO, una creatura fragile e luminosa precipitata tra le palme di Los Angeles. Le sue canzoni sono ancora lì, in attesa di chi ha il coraggio di ascoltarle davvero. Non sono hit. Sono epifanie. In un mondo monopolizzato da playback e algoritmi, Wilson resta l’ultimo compositore analogico dell’anima. Uno che sentiva la tristezza nel rumore dell’oceano e, invece di scappare, è riuscito a trasformarlo in poesia armonica.

Conclusione: Il surf non muore mai

La vita terrena di Brian Wilson è terminata . Ma la sua leggenda no. Perché ogni volta che qualcuno preme play su “Surf’s Up” o “Don’t Talk (Put Your Head on My Shoulder)”, un pezzo della sua anima vibra di nuovo nell’etere. Non cercatelo nei cimiteri, non troverete nulla. Cercatelo nei suoni impossibili che ancora non sapete di amare. In un mondo che corre, Wilson è l’onda che resta.

Hank Cignatta

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