Mirage dei Camel, cronaca di un miraggio sonoro

Mirage dei Camel, cronaca di un miraggio sonoro

Fuori piove come se Nevrotic Town (o Torino, se siete amanti della meteorologia) non avesse mai visto l’acqua. Un nubifragio che si dipana sulla città in pochissimi istanti. Mi butto come un’ingombrante sacco di patate sul divano, in cerca di qualcosa che possa farmi passare la serata. Cerco rifugio nella musica e in essa trovo la risposta: frugo tra la mia collezione di vinili finché la mia ricerca non si ferma sulla copertina del disco Mirage dei Camel. Estraggo il vinile, lo metto sul piatto, abbasso la puntina e lascio che la magia faccia il suo corso.

Nel 1974 (anno di pubblicazione dell’album che analizzo in questo articolo) non c’era Google Maps, ma i Camel avevano già tracciato le coordinate per un’esplorazione sonora che non rispondeva a nessuna logica terrestre. “Mirage” non è solo un album: è una carovana sonora che si snoda tra dune di Mellotron, assalti chitarristici e tempeste ritmiche. E io, vostro amichevole giornalista Gonzo di quartiere, ci sono finito dentro con tutto il corpo. Attaccatevi alla sedia o ovunque siate in questo preciso momento: si parte.

La copertina del disco

Prima un po’ di storia

I Camel sono una rockband progressiva che si forma in quel di Guildford, contea inglese di Surrey, nel 1971. Il gruppo nasce su impulso del cantante, compositore, chitarrista e flautista Andrew Latimer, il quale insieme al fratello Ian e ad altri forma i Phantom Four. La band cambia diversi nomi e passa attraverso altrettanti cambi di formazione: diventano i Camel e annoverano nella loro formazione di quel periodo Andrew Latimer alla chitarra e voce, Peter Bardens alle tastiere, Andy Ward alle pelli e Doug Ferguson al basso.

Prog Rock, Sabbia e LSD: il contesto di Mirage dei Camel

Dimenticate il punk e dimenticate il pop: nel 1974 il rock era una creatura mutante, gonfia di ambizione e sonorità innovative. I Camel – quartetto britannico apparentemente sobrio – entrarono in scena con un disco che sembrava il secondo capitolo di un sogno interrotto. “Mirage”, il loro secondo album in studio , non ha nulla di definito. E come ogni vero miraggio muta ad ogni ascolto. Prodotto da David Hitchcock per l’etichetta Deram Records, è un trip musicale lungo cinque tracce.

Freefall nei cieli di “Freefall”: l’inizio di Mirage dei Camel

La prima traccia è una caduta libera. Un’esplosione di tastiere e chitarre che sembrano rincorrersi, poi rinculano, poi si abbracciano come due ubriachi al festival dell’assenzio. Andrew Latimer, chitarrista e flautista, lancia assoli che sembrano lamenti di un uccello cybernetico. La batteria di Andy Ward non accompagna: minaccia. “Freefall” è il manifesto d’ingresso: se pensavi di trovare melodie rassicuranti, stai ascoltando l’album sbagliato. Qui ci si perde per scelta.

Su un tappeto volante chiamato “Supertwister”

Un cambio di marcia per questa traccia. Un flauto, morbido come il fumo di oppio in un suk di Marrakech, apre Supertwister. Latimer smette i panni del chitarrista e si trasforma in una versione prog di Ian Anderson degli Jethro Tull in vacanza mistica. È una pausa ma anche un trucco: il brano è pieno di trappole ritmiche e curve a gomito sonore. La sensazione è quella di levitare, ma ogni tanto una nota ti ricorda che la gravità esiste ancora. O Quasi.

“Nimrodel/The Procession/The White Rider”: Tolkien, acido e allucinazioni

Il centro nevralgico del disco. Tre brani fusi in uno, come tre monaci pazzi in preghiera davanti ad una divinità psichedelica. Questa suite (come direbbero quelli bravi, ovvero non io) – perché chiamarla “canzone” sarebbe un insulto – è una sinfonia da guerra spirituale. Suona come se Gandalf avesse messo su un gruppo con Rick Wakeman e David Gilmour, sotto effetto di peyote. L’orchestrazione è epica, quasi cinematografica, ma mai pomposa. C’è un equilibrio miracoloso tra narrazione e delirio. Ogni cambio di tempo è un portale dimensionale. Ogni riff è un codice esoterico.

La distorsione elegante di “Earthrise”

Se Supertwister era una nuvola e White Rider (fuse insieme nella riproduzione di Nimrodel ) una battaglia, Earthrise è sicuramente un razzo. Qui il synth prende il controllo e il basso di Doug Ferguson è il carburante. Un brano strumentale che danza sul filo del caos, mantenendo però un’integrità quasi jazzistica. È il tipo di musica che immagini in sottofondo mentre cerchi di capire se stai sognando o stai semplicemente ascoltando troppo attentamente.

“Lady Fantasy”: orgasmo cosmico in tre atti

Qui il Camel diventa dromedario mitologico. “Lady Fantasy” è un viaggio, una fuga, un corteggiamento ad una musa che forse non esiste. Diviso in sezioni (Encounter, Smiles for You, Lady Fantasy), il brano fonde tutte le anime dell’album. Latimer canta come se stesse parlando con un fantasma. Le tastiere di Peter Bardens diffondono incenso mistico. Non si tratta solo di musica bensì di una visione lucida di un mondo parallelo. E alla fine, l’ascoltatore è in ginocchio. Non per la stanchezza ma per gratitudine.

Perché “Mirage” dei Camel è il miglior album prog che non hai mai ascoltato

Parliamoci chiaro: se cerchi “migliori album progressive rock anni ’70”, ti spunteranno sempre i soliti titoli delle indiscusse divinità del rock. Pink Floyd, Yes, Genesis, King Crimson e molti altri. Ma Mirage è l’eccezione che scava sotto la superficie. È un disco che ha come intendo primario quello di non voler piacere ma bensì di stordire i sensi. Non ha singoli radiofonici né ritornelli da canticchiare. Eppure, chi lo ascolta ne esce cambiato. E questo, amici ed amiche, è il vero miracolo del progressive: trasformare il suono in esperienza. E Mirage lo fa alla grande, meritando il podio assieme ad opere decisamente più famose e blasonate.

In Conclusione: Un disco sudato, frastornato, innamorato

Ho terminato l’ascolto di questo disco come se fossi tornato da un viaggio nel deserto sotto il sole avento divorato della mescalina. Questo non è solo un album: è un rituale. È una porta verso una dimensione mistica: è il suono della sabbia che canta. È una corsa a perdifiato sul dorso di una creatura che non dovrebbe esistere. Ma esiste. E ha quattro nomi: Latimer, Bardens, Ferguson, Ward. Ascoltatelo e godetevelo tutto. È miraggio, sì. Ma anche verità. E mentre la puntina arriva alla fine di questo vinile ringrazio ancora il potere il sempiterno potere taumaturgico della musica.

Hank Cignatta

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Sono la mente insana alla base di Bad Literature Inc. Giornalista pubblicista, Gonzo nell’animo, speaker radiofonico, peccatore professionista, casinista come pochi. Infesto il web con i miei articoli che sono dei punti di vista ( e in quanto tali condivisibili o meno) e ho una particolare predisposizione a dileggiare la normalità. Se volete saperne di più su di me e su Bad Literature Inc. leggete i miei articoli. Ma poi non dite che non siete stati avvertiti.

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