Hall & Oates, ovvero quando il pop aveva l’anima

Hall & Oates, ovvero quando il pop aveva l’anima

Bourbon, Sesso, sudore e vinili: l’inizio di questa storia

Interno. Il mio appartamento. Sono le tre del mattino e in quel momento la luce del frigorifero è l’unica fonte di verità. Tornato in camera nel mio letto, la Dani California del momento dorme il sonno dei giusti dopo un’infuocato rapporto celebrativo per suggellare la nostra reciproca conoscenza, avvolta in una maglia esageratamente larga per lei con il logo dei Ghostbusters. Nel piatto del mio giradischi Technics gira Private Eyes: il vinile salta quindi tolgo la puntina dal vinile mentre il disco però continua a girare. Ho appena rovesciato un dito di bourbon sulla copertina e mi rendo conto che, tra un synth e una scarica di falsetto, Hall & Oates sono la risposta alla domanda che nessuno ha mai osato fare: cosa succede quando un’anima soul e un cuore soft rock si scontrano a cento all’ora in una Pontiac immaginaria fatta di note, ego e paillettes anni Ottanta? Questa è una cronaca impasticcata di suoni, sudore e synth pop.

La copertina del vinile di Private Eyes

Capitolo 1: Gli inizi di Hall & Oates

Daryl Hall, il biondo con la voce di un cantante soul, incontra John Oates, baffo tipico del periodo e groove nelle dita, all’università di Temple. Non è un film, è solo il primo atto di una storia talmente americana da sembrare scritta da Hunter S. Thompson sotto acido, con la differenza che qui la droga che crea dipendenza è l’orecchiabilità.

Hall & Oates sulla copertina della famosa rivista musicale Rolling Stone

Hall è la luce, Oates è l’ombra. Non c’è competizione, solo simbiosi. Un binomio più alchemico che musicale. Non si trattava solo di fare musica. Era un esperimento sonoro in pieno stile laboratorio clandestino: R&B, pop, rock, funk, new wave e gospel fusi come metalli pesanti in una fornace di pantaloni stretti e cori angelici. La formula era instabile, eppure perfetta.

Capitolo 2: L’estetica del crimine, quando il pop diventa culto

Ascoltare I Can’t Go for That (No Can Do) è come ingoiare uno Xanax sonoro aromatizzato al sax: ti rilassa, ti spiazza e poi ti frega con un ritornello che ti si incolla al cervello come il sudore sulla pelle in un club del 1982 (perché proprio questa data, vi domandate? Mi suonava bene).

Hall & Oates erano post-pop prima che il concetto esistesse. Gli altri volevano vendere dischi, loro vendevano identità. Lo facevano con la grazia kitsch di un telefilm del sabato pomeriggio ma sotto la superficie si agitava un’anima nerissima impastata di Marvin Gaye, Curtis Mayfield, Todd Rundgren e tutta la disperazione zuccherosa della provincia americana.

Capitolo 3: perché cercare Hall & Oates oggi è un atto di ribellione

Prova a digitare “Hall & Oates” su Google oggi. Ti compare una pagina Wikipedia asettica, qualche playlist nostalgica su Spotify e articoli col fiato corto. Nessuno ti dice che ascoltarli nel 2025 è come sniffare nostalgia mista a glitter. È una dichiarazione estetica e filosofica, un culto da riscoprire.

Erano stregoni. Ogni hit è un incantesimo ben costruito. Prendi Maneater. È pop? Sì. Ma anche una danza tribale in minigonna. Una favola metropolitana sulle donne e i lupi, scritta con penna d’oro e paranoia sintetica.

Capitolo 4: Il Silenzio Dopo il Funk

Dopo il picco, il silenzio. Gli anni Novanta arrivano come una secchiata d’acqua gelida. Nirvana, grunge, ironia a palate. Hall & Oates? Tagliati fuori. Ma non dimenticati. No, mai dimenticati. Hanno continuato a suonare, come vecchi samurai pop, affilando i loro strumenti nell’ombra.

Vederli dal vivo era come entrare in una chiesa costruita con neon e sintetizzatori. Hall colpisce le note alte come se volesse aprire portali cosmici mentre Oates tiene la linea come un monaco zen del groove. Non erano concerti, erano sedute spiritiche travestite da party new wave. La folla non cantava: entrava in trance. Non era musica da ballare, era musica da sopravvivenza con stile.

Capitolo 5: Mitologia e rottura del duo che non voleva esserlo

Parlare di Hall & Oates oggi significa parlare di un’America che non esiste più o forse non è mai esistita. Una terra di sogni sintetizzati, groove infetti e verità dette sottovoce. Erano narratori visionari travestiti da hitmaker (figa sta parola eh?). Ascoltali ora, senza ironia. Metti su “Sara Smile” a luci spente. C’è dentro più verità che in mille editoriali sul declino dell’occidente.

Hall & Oates non sono mai stati “amici” nel senso classico del termine. Erano come due pianeti in collisione continua: orbitavano nella stessa galassia ma con spin opposti. Le loro interviste sembrano estratte da una sitcom su un matrimonio infelice e geniale. Eppure, è proprio questa tensione l’ingrediente segreto. Il groove nasce dal conflitto, il ritornello dalla distanza. E adesso che una causa legale ha creato una frattura insanabile tra i due, non rimane che la magia della loro eredità musicale.

Conclusione: Hall & Oates come filosofia di vita (con colonna sonora)

Dimentica le etichette, le classifiche e gli articoli scritti su riviste blasonate che non fanno della coerenza il loro punto di forza. Se stai leggendo questo, probabilmente hai bisogno di qualcosa che nessuna playlist algoritmica o articolo scritto da penne di grido può darti: una botta di umanità sotto forma di falsetto e funk. Hall & Oates sono un culto pop mai davvero esploso, sempre pronto a riesplodere. Un viaggio nel cuore di quell’America che non esiste più e che sta cercando di imparare di nuovo a ballare e piange mentre canta. E mentre il vinile continua a girare mi rendo conto che She’s Gone non è solo una canzone. È un manifesto.

Hank Cignatta

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