Andrés Escobar, la triste storia di un campione dalla fine assurda
Piove a Nevrotic Town (o Torino, se siete amanti di criminologia) ed è passato un altro giorno. La mia Noël si rifugia sotto una copertina molto leggera, facendomi capire che non ha nessuna intenzione di schiodarsi da li. Mentre vago distrattamente tra i canali televisivi rifuggo quasi istintivamente verso Youtube, dove ad accogliermi c’è il mio amico algoritmo che mi propone una storia triste quanto assurda: quella del calciatore colombiano Andrés Escobar.
Immagina il verde acceso di un campo di calcio, l’erba quasi luccicante sotto i riflettori e novanta minuti che segnano il destino di uomini che raggiungono l’apice della propria carriera agonistica e una nazione in delirio. Correva l’anno 1994 e in quell’anno ci fu il Mondiale di calcio negli Stati Uniti, lo stesso che l’Italia perse in finale contro il Brasile. La Colombia è in campo contro gli Stati Uniti, con la pressione di un intero Paese e le promesse non mantenute che si trascinano come un’ombra dietro le spalle di tutti. Nel cuore di quella squadra c’è un uomo tranquillo, elegante, serio: il suo nome è Andrés Escobar. Figlio di un banchiere che avviò un progetto sociale atto a permettere di giocare a calcio ai bambini poveri, aveva il calcio nel sangue. Mosse i primi passi nelle giovanili della compagine calcistica locale del Colegio Calasanz passando poi nel 1989 all’Atletico Nacional (squadra della città di Medellin), con la quale si aggiudicò diversi scudetti del campionato colombiano. Le sue prestazioni gli valsero la convocazione in Nazionale da titolare in occasione dei mondiali di Italia Novanta e anche in quella dell’edizione americana del 1994.
La sua vita, fino a quel momento, era la storia di un ragazzo che aveva fatto le cose giuste. Non era una delle stelle che seguivano il binomio di genio e sregolatezza del calcio colombiano, né aveva i guizzi eccentrici di René Higuita o di Carlos Valderrama. Andrés era diverso, era un tipo pulito. Non mancavano i campioni in quella formazione che passò alla storia come La Generazione d’Oro dove ai nomi dei già citati Valderrama ed Higuita si distinsero campioni del calibro di Freddy Rincon (che militò per due anni nel Napoli), Faustino Asprilla (che faceva parte della formazione del Parma che, tra le altre cose, si aggiudicò la Supercoppa Uefa 1993) e Adolfo Valencia. In campo la sua freddezza difensiva era leggendaria: Escobar era un difensore centrale che giocava con un eleganza senza pari e una precisione chirurgica.
La Colombia, dopo aver perso la partita nella fase a gironi contro la Romania per 3-1 affrontò a Pasadena i padroni di casa, gli Stati Uniti. Quella sera però qualcosa va storto. Nella concitazione di un contropiede avversario un cross degli Stati Uniti trova il piede di Escobar. Un tocco maledetto che ha tradito ogni principio della fisica: il cavaliere del calcio come è stato definito in patria per i suoi modi eleganti si trova così nel posto sbagliato al momento sbagliato. Escobar è a terra incredulo mentre Higuita rimane a terra quasi come se fosse stato colpito da un fulmine. E sugli spalti e sugli schermi delle tv di tutta la Colombia si inizia a realizzare quanto accaduto. Un autogol. Un maledetto, irrimediabile, inesorabile autogol che condanna la nazionale colombiana all’eliminazione dal mondiale.
Non c’era tempo per i rimpianti. Il calcio non concede pause alla storia e quello fu l’inizio della fine per il sogno dei cafeteiros (chiamati così perché la Colombia è una delle maggiori produttrici di caffé) guidata dall’allenatore Francisco Maturana. La Colombia venne eliminata così dai Mondiali e un Paese intero, che si era vestito di speranza, sprofondò nella disperazione. E mentre in molti Paesi la sconfitta rimane tale, in Colombia non era così. Almeno non in quel periodo. Nel 1994 il Paese era in piena guerra civile non dichiarata. I cartelli della droga controllavano intere regioni, Pablo Escobar (che non aveva nessuna parentela con Andrés) era appena stato ucciso ma la sua ombra continuava (e continua) a comparire per le strade di Medellín. Il calcio, per molti, era una via di fuga, una valvola di sfogo collettiva. Ma era anche un affare. Un affare sporco. Scommesse, soldi, tangenti. E dove c’è denaro sporco, ci sono vite che valgono meno di un autogol. E così Andrés, dopo l’eliminazione, fece ciò che avrebbe fatto qualsiasi altro essere umano. Tornò a casa e tentò di riprendersi, sperando che il tempo avrebbe guarito quelle ferite. Ma il tempo, in Colombia, non funziona come altrove. La notte del 2 luglio 1994, Andrés decise di uscire. Non per dimenticare ma per vivere, per sentire il calore di Medellín e del suo popolo. Andò in un bar con amici, ma lì il destino, ancora una volta, aveva altri piani. In un parcheggio buio fuori da un locale, qualcuno lo raggiunse. Quello che accadde dopo è avvolto nelle nebbie della leggenda e delle voci di corridoio che aleggiano ancora oggi ma i fatti crudi sono questi: Andrés Escobar venne raggiunto da sei colpi di pistola che lo uccisero a soli ventisette anni. Il tutto mentre un’eco di disperazione risuonava in Colombia. Gli spari non erano solo proiettili, erano la macabra colonna sonora della fine di una nazione che cercava disperatamente di sfuggire dal suo passato. Humberto Muñoz Castro, era il sicario di una famiglia vicina ai cartelli della droga e si addosso la colpa dell’omicidio. Fu condannato a quarantatrè anni di carcere ma ne sconterà soltanto undici e tornando in libertà nel 2005 in seguito ad una controversa riforma del codice penale nazionale che ancora oggi fa discutere. Ma l’autogol era solo una scusa, una provocazione. Andrés era stato condannato da un sistema che non perdonava fallimenti, da una società che mescolava calcio e crimine con una nonchalance criminale e la sua colpa era quella di aver fatto perdere un ingente somma di denaro in quel sistema malato fatto di corruzione e denaro sporco. Non era il fallimento di una nazione calcistica. Era il fallimento di una nazione che chiedeva disperatamente aiuto. I funerali di Escobar furono un rito collettivo. Decine di migliaia di persone si riversarono nelle strade per salutare un uomo che, per ironia del destino, non aveva mai voluto essere un eroe. Escobar non fu il protagonista della sua vita, ma morì come se lo fosse stato. E mentre la Colombia lo piangeva, il mondo assisteva impotente all’ennesimo atto di un dramma in cui una semplice partita di calcio era diventata una questione di vita o di morte.
C’è una foto famosa di Escobar, un ritratto scattato poco prima del Mondiale. Andrés è lì, in piedi, con lo sguardo serio ma sereno, ignaro di ciò che lo attende. E guardandolo oggi, c’è un dolore in quel viso che risuona forte, un’innocenza che è stata calpestata dalla realtà brutale di un Paese in guerra con se stesso. Lui non è morto per un autogol. È morto perché qualcuno ha deciso che, in quel momento, una vita valeva meno di un risultato. Forse, in qualche modo malato, quella pallottola è stata la punizione perfetta per un gol sbagliato. Ma la verità, quella che il mondo del calcio non vuole ammettere, è che la morte di Andrés è stata il risultato di un sistema che aveva già deciso di perderlo. Alla fine di tutto il pallone rotola ancora. I campi verdi splendono sotto i riflettori, e la vita continua. Ma c’è un fantasma su quel prato, un uomo con una maglia bianca e un numero di un calciatore che un autogol ha trasformato in un martire.
Hank Cignatta
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