La storia dei The Doors, viaggio tra rivoluzione e psichedelia

La storia dei The Doors, viaggio tra rivoluzione e psichedelia

Nascita di un trip

Los Angeles, 1965. La città è un deserto di luci artificiali, un inferno scintillante dove i sogni si mescolano alla polvere. L’America è in pieno delirio psichedelico: i figli della borghesia bianca si fanno crescere i capelli e urlano contro la guerra, mentre un ragazzo con gli occhi come due schegge di tempesta siede sulla spiaggia di Venice e scrive poesie che sanno di sesso, morte e redenzione. Quel ragazzo è Jim Morrison.

Jim Morrison

Non è un cantante. O per lo meno non ancora. È un poeta che vomita visioni, un profeta pazzo con la voce di un animale ferito. Quando incontra Ray Manzarek le loro menti collidono come due stelle in un buco nero. Nascono così i Doors, un nome preso da Le Porte della percezione di Aldous Huxley, libro che spalanca l’abisso tra realtà e visione. Da lì in poi niente sarà più lo stesso.

Il suono dell’apocalisse

I Doors non suonano come nessun altro. Mentre il mondo s’innamora dei Beatles e si ubriaca con i Rolling Stones, loro partoriscono un suono cavernoso, erotico, quasi mistico. Niente basso, solo un organo che vibra come una chiesa in rovina, una chitarra che taglia l’aria come una lama, una batteria tribale e la voce di Morrison profonda, animalesca, che entra sotto pelle come un’allucinazione.

Ray Manzarek, tastierista e co-fondatore dei Doors

Ogni concerto è un rituale, un’esplosione di desiderio e caos.
Jim non canta: evoca. Sputa versi come se stesse cercando di liberarsi dal corpo, come se volesse strappare via la pelle e offrirla agli dei del rock. Sul palco è Dioniso ubriaco, è un Cristo decadente, è il serpente che sussurra all’Eden di farsi città. E il pubblico lo sa, lo sente. Lo amano, lo temono. Quando urla “Father, I want to kill you. Mother, I want to…”, il mondo intero capisce che il rock non sarà mai più un semplice intrattenimento. È diventato una guerra spirituale.

Los Angeles: l’inferno travestito da paradiso

Cammino su Sunset Boulevard e sento ancora il suo respiro tra i neon e la notte. Ogni bar, ogni locale, ogni vetrina è una reliquia di quella follia. Il Whisky a Go Go non è più un tempio, ma si sente ancora la vibrazione dei passi, il ruggito di quella giungla elettrica che fu la culla e la tomba dei Doors. Morrison era l’incarnazione della città stessa: bello, corrotto, immortale. Beveva come un poeta francese, amava come un animale e scriveva come un profeta schizofrenico.
Los Angeles l’ha amato e poi divorato.

Nel Gonzo non c’è separazione tra cronista e racconto e mentre scrivo mi accorgo che sto respirando la stessa aria viziata. Mi sento osservato dai fantasmi degli anni Sessanta, dalle ragazze con le minigonne e le pupille dilatate e dai veterani che non sono mai tornati dal Vietnam. E in tutto questo, la voce di Jim continua a urlare: “Break on through to the other side.”

I Doors e La poesia come arma di distruzione

Morrison non era solo un cantante. Era un poeta nel senso più feroce e primitivo del termine. Scriveva di corpi e di spiriti, di sesso e di morte, di visioni desertiche e cadute metafisiche. I suoi versi erano esplosioni di immagini — “The End”, “When the Music’s Over”, “Celebration of the Lizard”. Ogni parola era un colpo di pistola sparato contro il perbenismo americano.

Nel suo diario mentale la libertà era una droga più potente dell’LSD. E forse è proprio lì che si è bruciato: nel tentativo di trasformare la vita in arte senza mai staccare la spina. Per lui non esisteva distinzione tra palco e realtà, tra sogno e autodistruzione. Era il trip definitivo e lo stava facendo dal vivo davanti a tutti noi.

Parigi, 1971: l’ultimo viaggio dei doors e di Jim Morrison

Parigi è grigia ma nel suo grigio Morrison trova la fine. Scappa da Los Angeles, dal mito, dai riflettori e dagli agenti della morale americana. Vuole scrivere, vivere come un poeta maledetto e morire in silenzio. Ma il silenzio non lo trova mai. Il 3 luglio 1971 il suo corpo viene trovato nella vasca da bagno. Nessuna autopsia, solo leggende. Alcuni dicono overdose, altri dicono cuore spezzato. Forse era solo stanco. Forse aveva finalmente attraversato quelle porte della percezione che tanto aveva inseguito.

Jim Morrison muore a 27 anni e nasce l’icona. Da quel momento i Doors diventano più di una band: diventano una religione. E lui, il loro profeta caduto, continua a parlare da ogni vinile, da ogni poster, da ogni eco di una generazione che non ha mai smesso di cercare la libertà.

Il fantasma nei nostri sogni

Jim Morrison non è mai davvero morto. Vive nei bar fumosi, nei deserti americani, nei versi scritti sulle pareti dei bagni dei club. È la voce che sussurra a chi non riesce a conformarsi, a chi brucia ancora di desiderio e disillusione. I Doors non hanno chiuso nessuna porta: le hanno spalancate tutte. E attraverso quelle porte continuiamo a cadere, ancora oggi, come falene ubriache di luce.

La tomba di Jim Morrison nel cimitero francese di Perè Lachise

Hollywood, Sceneggiatura e Spirito: il Morrison di Val Kilmer nel film The Doors

Quando Oliver Stone decide di portare i Doors al cinema, non vuole fare un documentario. Vuole un’apparizione mistica, un rito visivo che spalanchi le porte del mito e per farlo sceglie Val Kilmer come medium di Jim Morrison. Sul set, Kilmer non recita: somiglia, trasuda Morrison. Passa mesi ad assimilare ogni falsetto nelle sue corde vocali, ogni movimento sul palco, ogni sfumatura di follia. Le sequenze dal vivo come quelle al Whisky a Go Go, quelle nel Mojave sono la struttura scheletrica del film. Il regista le filma come visioni: Kilmer cammina, danza, suda Morrison; supera il limite della rappresentazione e sfiora l’esistenza.

Ma il film è anche un prisma deformato. Morrison è ritratto quasi sempre nella sua carica distruttiva alcol, sesso, eccessi e molto meno nei momenti di silenzio, di riflessione, di amicizia. Alcuni membri della band (in particolare John Densmore) dicono che il film “non spiega davvero cosa muovesse Jim”, che lascia fuori la sua gentilezza, la sua complessità. Kilmer però resta il cuore pulsante del film. Quando canta, quando urla, quando implode sul palco — la sospensione tra “è lui” e “è qualcosa di più grande di lui” è palpabile. Non vince Oscar (nonostante molti ritengano avrebbe dovuto), ma guadagna qualcosa di raro: diventa credibile.

Nel trip cinematografico di The Doors la presenza di Kilmer è uno specchio rotto che riflette solo l’eccesso ma in quei frammenti riflettenti capisci qualcosa: Morrison non è tanto un uomo che vive il mito ma un mito che vive nell’uomo.

Conclusione: The Doors, Gonzo, Morrison e il fuoco sacro

Scrivere dei Doors significa scrivere di un’epifania collettiva. Significa raccontare la collisione tra l’arte e l’autodistruzione, tra la poesia e il caos. Morrison era un santo del delirio, un poeta apocalittico che ha usato il microfono come una bomba. E nel suo ruggito c’è ancora l’eco di una verità che fa paura: che la libertà, quella vera, è sempre un atto di violenza contro la realtà.

Hank Cignatta

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Sono la mente insana alla base di Bad Literature Inc. Giornalista pubblicista, Gonzo nell’animo, speaker radiofonico, peccatore professionista, casinista come pochi. Infesto il web con i miei articoli che sono dei punti di vista ( e in quanto tali condivisibili o meno) e ho una particolare predisposizione a dileggiare la normalità. Se volete saperne di più su di me e su Bad Literature Inc. leggete i miei articoli. Ma poi non dite che non siete stati avvertiti.

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