
Il Grande Lebowski: psichedelia, bowling e apatia americana
“The Dude Abides”: anatomia di un culto nato per sbaglio
Il Grande Lebowski non è un film. È un culto. È una religione. È una sbornia esistenziale con una pistola carica di sarcasmo e un White Russian in equilibrio instabile sul tappeto. Il Grande Lebowski, pellicola partorita nel 1998 dai fratelli Coen, è il ritratto allucinato di un’America che ha perso la guerra del Vietnam e non se n’è mai accorta. Una commedia nera in vestaglia e infradito, con un antieroe che è diventato simbolo generazionale del disimpegno.

Jeffrey Lebowski, detto The Dude, è l’eroe che non vorresti mai in trincea, ma che vorresti come vicino di casa. Pigro cronico, filosofo da salotto, scivola in un noir storto come la sua camminata, quando due scagnozzi gli pisciano sul tappeto “che dava un tono alla stanza”. Da lì parte una discesa agli inferi (o forse agli happy hour) tra pornografia, bowling, rapimenti simulati e veterani di guerra fuori di testa.

Lebowski e la fine dell’eroe americano
ll Dude non vuole combattere. Non ha una missione. Non ha neanche un lavoro. È la negazione ambulante del maschio yankee anni Ottanta, soppiantato da una creatura molle e cosmica che fuma erba, ascolta i Creedence e odia i nazisti (anche quelli che si fingono tali). Dove l’America produce eroi muscolari e traumatizzati dalla guerra (da Rambo a Forrest Gump), i Coen estraggono dal cilindro un antieroe depresso ma pacifico, zen senza sforzo, disarmato e disarmante. Un uomo fuori dal tempo, uno scarto del progresso, che vive in un eterno presente fatto di bollette non pagate, partite di bowling e sogni psichedelici in costume da cowgirl.
Il Bowling come metafora dell’Universo
Non è un caso che il fulcro sociale e simbolico del film sia un bowling. Lì si svolge la vera guerra, lì si gioca il destino di Lebowski, Walter e Donny. Quel luogo è la parodia kitsch di una trincea, con i tre protagonisti che combattono non per ideali, ma per superstizioni, malintesi e regole non scritte. Walter Sobchak(magistralmente interpretato da un John Goodman in stato di grazia), veterano del Vietnam convertito all’ebraismo e sempre pronto a estrarre una pistola per far rispettare le regole del torneo, è il contraltare paranoico e violento del Dude. È la voce isterica dell’America post-traumatica, che non ha mai lasciato il fronte.

Donny, invece, è il silenzioso sacrificabile. La mascotte destinata alla fine più assurda e poetica: cremato in una scatola da caffè e disperso nel vento come un’ultima boccata di libertà.

Una parodia dei noir che si prende gioco di se stessa
I fratelli Coen prendono le strutture del noir classico (investigazione, femme fatale, crimine) e le smontano pezzo per pezzo. The Dude è un investigatore improvvisato, guidato non da logica ma da sogni, acidità di stomaco e paranoie indotte dalla marijuana. Maude Lebowski, figlia dell’omonimo miliardario, è una femme fatale femminista, artista concettuale e senza alcun reale interesse erotico. I criminali? Non sono né pericolosi né intelligenti. Sono dilettanti, falliti, punk tedeschi che mangiano pancake e sognano milioni che non arriveranno mai.
Il Grande Lebowski e la filosofia del disimpegno come salvezza
Cosa ci insegna Il Grande Lebowski? Che forse non c’è niente da imparare. O forse che imparare a fregarsene è la forma più alta di consapevolezza. The Dude non combatte per vincere, ma per sopravvivere al caos con un minimo di dignità e un drink in mano. In un mondo che pretende performance, ambizione e successo, la sua inerzia è rivoluzionaria. Non è un caso che il Dudeismo (una vera e propria religione ispirata al personaggio) conti migliaia di adepti in tutto il mondo. Gente che ha visto nel cazzeggio una filosofia, nel tappeto un totem, e nel bowling una liturgia.
Un flop diventato mito
Al momento dell’uscita, il film non fece faville. Critiche tiepide, pubblico disorientato. Ma come tutte le droghe lente, Il Grande Lebowski ha attecchito nel subconscio collettivo. È diventato culto, citazione, icona pop. Ha generato festival (Lebowski Fest), merchandising, studi accademici e una mole di fan art che non ha eguali. Ogni battuta è diventata proverbio. Ogni personaggio, archetipo. È il paradosso del cinema postmoderno: una storia senza morale, senza evoluzione e senza finale che ci racconta più di mille biopic e drammoni strappalacrime.
Conclusione: la rivoluzione comincia in accappatoio
In un’epoca dove tutto è brand, carriera e storytelling, Il Grande Lebowski è una bestemmia cinematografica che continua a risuonare. È la storia di un uomo qualunque che, senza volerlo, ha fatto la cosa più rivoluzionaria di tutte: non cambiare mai. Il Dude è rimasto. E il mondo, lentamente, gli è andato dietro. “The Dude abides”, e forse dovremmo farlo anche noi.
Hank Cignatta
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