
Chuck Palahniuk e l’arte di scrivere come un’arma carica
C’era odore di ferro e inchiostro quella sera in cui lessi Fight Club per la prima volta. Non sto parlando del film – che pure è un culto, un sacrilegio benedetto – ma del libro, il Vangelo apocrifo di una generazione disillusa, disossata, col cuore a pezzi come vetri rotti in un pugno. Chuck Palahniuk scrive come se ogni parola fosse una scheggia conficcata sotto pelle: pungente, sporca, viscerale. È pura chirurgia letteraria senza anestesia.

Chuck Palahniuk: un cronista del collasso
Nato nel 1962 a Pasco, nello stato di Washington Palahniuk è cresciuto tra roulotte, chiese e funerali. Roba vera. Scrivere, per lui, è come praticare un’autopsia su un cadavere ancora caldo: il suo stile minimalista, influenzato da Tom Spanbauer, è tutto ritmo sincopato, frasi brevi, ripetizioni martellanti. Basti pensare ad una delle frasi più celebri del suo libro più famoso: la prima regola del Fight Club è che non si parla del Fight Club. Eppure eccoci qui, a parlarne come se fosse l’unico testo sacro sopravvissuto al crollo della modernità. E forse è un po’ così.

I libri sono bombe
Ogni romanzo di Palahniuk è una trappola esplosiva mascherata da libro. I titoli sono come colpi d’arma da fuoco, pronti a ridurre in brandelli la fragile pelle del lettore medio. Dentro c’è tutto: pornografia, morte, ossessione, religione e cultura pop masticata e rigurgitata. Ma non per traumatizzare ( Palahniuk non è certo un ragazzino in cerca d’attenzioni) bensì per scavare, per sviscerare l’anima stanca del mondo occidentale. La società è il suo campo di battaglia e lui, cronista di guerra, ci lascia i reportage.

Lo stile di Chuck Palahniuk: tra il culto e la nausea
Ecco: se lo cercate su Google troverete montagne di analisi, saggi, e masturbazioni accademiche. Ma la verità è più semplice: Palahniuk scrive come si tira un pugno allo stomaco. Taglia. Mette il lettore davanti a uno specchio crepato e gli chiede: “Ti piace quello che vedi?”. È minimalismo sporco ma con un senso del ritmo quasi musicale. La ripetizione non è un errore bensì un mantra. La frase corta non è pigrizia ma precisione chirurgica.

La realtà come finzione malata
Palahniuk ha detto: “Scrivo quello che la gente non riesce a dire ad alta voce”. E allora eccolo che fa esplodere le nostre vergogne sul tavolo operatorio della narrazione. La morte del padre, ucciso da un ex detenuto. Il suo coming out come omosessuale in un’America ancora impantanata nel fango del moralismo. Le sue storie vere nei tour di lettura, dove la gente sviene ascoltando racconti di esperienze estreme. Palahniuk non è uno scrittore. È un tossicodipendente di verità.
Conclusione: non leggere Palahniuk, assorbilo
Non si legge Palahniuk come si legge un romanzo d’intrattenimento. Si sopporta. Si affronta. È una prova di resistenza, un rito di passaggio. Le sue parole bruciano, graffiano, e quando pensi che sia finita, ti lascia un pensiero nel cervello come una bomba a orologeria. Palahniuk non scrive per piacere. Scrive per ricordarti che stai dormendo e che là fuori il mondo è un posto che non vuole salvarti.
Hank Cignatta
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