Hikikomori, cronache da una stanza chiusa

Hikikomori, cronache da una stanza chiusa

Ci sono storie che vivono ai margini della società, come crepe sottili che si allargano finché non crolla un muro. Gli hikikomori (dal giapponese stare in disparte, isolarsi), i reclusi volontari, sono il segreto più rumoroso del Giappone moderno. E non solo: anche in Occidente si aggira lo spettro di giovani (e meno giovani) che scelgono di chiudere il mondo fuori dalla porta. Non per un giorno o per un mese ma per anni.

Il sintomo di una società malata

La scena è sempre la stessa. Una stanza piccola, spesso buia, illuminata solo dal bagliore del monitor di un computer. Una pila di piatti sporchi nell’angolo, vestiti abbandonati ovunque. Odore di chiuso, di tempo immobile. Fuori, la società corre. Dentro, il tempo si è fermato. Gli hikikomori non sono pigri. Non sono “perdenti”. Sono il sintomo vivente di una società che si aspetta troppo e offre poco. Pressioni accademiche, ansie lavorative, la paura costante di non essere all’altezza di qualsiasi aspettativa. Così il ritiro dalla vita sociale e dal mondo diventa una scelta radicale: il rifiuto totale delle regole di un gioco truccato.

Kato, ragazzo di Tokyo di 29 anni, hikikomori da sei anni

Non solo Giappone: il fenomeno globale

Anche in Italia il fenomeno è in crescita. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, oltre 66.000 giovani italiani vivono da hikikomori. Non è una fuga verso la comodità ma una guerra silenziosa contro un sistema che li opprime. La scuola, il lavoro e persino le relazioni sociali: tutto sembra un campo minato.

“Mi sveglio alle tre del pomeriggio, gioco fino alle cinque del mattino e mangio quando mi ricordo”, mi racconta Marko, nome di fantasia. Marko è un hikikomori italiano, uno di quei sessantaseimila fantasmi che hanno deciso di staccare la spina con il mondo esterno. Ha ventitré anni e da tre non mette piede fuori casa. “Perché esci Hank? Che senso ha?“, mi chiede Marko. Non accetta incontri di persona e dialogo con lui tramite Discord, piattaforma realizzata per la comunicazione tra videogiocatori. “Il mondo là fuori è malato. Mi giudicano. Mi chiedono cose che non voglio dare. Qui dentro sono libero. Su Discord posso essere chi voglio. Nessuno mi giudica”, dice Marko. La tecnologia offre una via di fuga, ma è anche un collare invisibile che li tiene ancorati alla loro stanza.

Marko è uno dei 66.000 hikikomori che vino in Italia

Libero, ma prigioniero. L’hikikomori costruisce un bunker mentale e fisico, dove ogni intrusione è vista come una minaccia. I genitori camminano in punta di piedi. Gli amici si stancano e spariscono. Restano solo le pareti della stanza e la connessione a Internet. Una libertà che sa di solitudine.

Le radici culturali del ritiro

Non è un caso che il termine “hikikomori” sia giapponese. Come abbiamo già visto per altri fenomeni sociali come lo Johatsu e il Karoshi n una società dove il successo personale è considerato l’unico modo per esistere, fallire è un peccato capitale. In Italia le radici sono diverse ma altrettanto velenose. Pressioni familiari, aspettative scolastiche e un mercato del lavoro che sembra respingere i giovani invece di accoglierli. E poi c’è la cultura del confronto costante: sui social, con i coetanei, persino con se stessi. La lotta per essere “perfetti” è estenuante.

Come si esce dalla stanza?

E qui arriva la grande domanda. Come si può aiutare un hikikomori? Non è semplice. Il primo passo è la comprensione, l’accettazione. Non si tratta di “svegliarsi” o di “tirarsi su”. Si tratta di ricostruire una fiducia distrutta, pezzo per pezzo. Secondo quello che dicono gli esperti (ai quali bisogna sempre rivolgersi) il supporto psicologico è fondamentale, ma deve essere calibrato. Forzare l’hikikomori a uscire dalla stanza può fare più danni che benefici. Bisogna entrare nel loro mondo con rispetto, creando un ponte invece di sfondare la porta.

Una ferita aperta nella società

Gli hikikomori non sono un’anomalia. Sono uno specchio. Rivelano le crepe profonde di una società che corre troppo veloce, che misura il valore di una persona in base alla produttività. E allora forse la domanda non è come aiutare gli hikikomori. Il quesito corretto potrebbe essere come aiutare noi stessi? Come costruire una società dove il valore di un individuo non sia ridotto a una lista di risultati? Il mondo là fuori è malato, dice Marko. E forse, in fondo, tutti i torti non li ha.

Hank Cignatta

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