
Johatsu, il fenomeno giapponese delle persone scomparse
È una sera umida a Tokyo. Le strade di Shinjuku (uno dei ventitré quartieri speciali della capitale) sono un labirinto illuminato al neon, dove l’odore del ramen si mescola all’incessante ronzio delle mille insegne neon colorate. Sono qui per inseguire un fantasma, o meglio, una categoria di fantasmi: i Johatsu (蒸発) . Il termine tradotto dal giapponese significa letteralmente coloro che evaporano. Migliaia di persone in Giappone svaniscono ogni anno senza lasciare traccia. Non si tratta di morti accidentali o rapimenti ma di fughe volontarie dalla vita quotidiana. E io, armato di taccuino e di una buona dose di curiosità malata, sono qui per scoprire perché.

Una fuga dalla società: il concetto di Johatsu
Il concetto di Johatsu è intrinsecamente legato alla pressione sociale giapponese. In una società dove il fallimento non è contemplato e l’onore è tutto, scomparire è una via d’uscita più accettabile che affrontare il disonore. Debiti insormontabili, divorzi, disoccupazione: ogni motivo è buono per spegnere le luci e uscire di scena. “C’è un’intera industria costruita attorno a questa idea”, mi dice Kenta, un investigatore privato specializzato nel rintracciare i Johatsu. Ci incontriamo in un piccolo izakaya (tipico locale giapponese), dove l’odore di yakitori (piatto tipico giapponese) è abbastanza forte da coprire qualsiasi conversazione indiscreta. “Esistono aziende che ti aiutano a sparire. Ti trovano un nuovo appartamento, ti forniscono una nuova identità. Per una somma modica, ovviamente.”

Le città dei perduti
La mia prossima tappa è Sanya, un quartiere non segnato sulle mappe turistiche di Tokyo. È qui che molti Johatsu finiscono. Sanya è una sorta di non-luogo, un purgatorio urbano fatto di locande economiche e silenzi carichi di storie non raccontate. Passeggiando per le strade incontro Haruka, una donna sulla cinquantina che dice di essere qui da dieci anni. “Ero stanca di tutto. Mio marito, il mio lavoro, la mia vita. Ho preso un treno per Tokyo e non sono mai tornata.” Non è una confessione, ma una dichiarazione di libertà. Haruka ora lavora in una cucina industriale. Guadagna poco, vive con meno, ma ha trovato una pace che le era stata negata dalla sua vita precedente.

Il lato oscuro dell'”evaporazione”
Ma non è tutto così romantico. Le storie di libertà hanno un prezzo. Molti Johatsu si trovano intrappolati in un ciclo di povertà, mentre altri finiscono sfruttati dal crimine organizzato. La Yakuza, la mafia giapponese, che è sempre pronta a monetizzare qualsiasi disperazione, recluta molte di queste persone scomparse per lavori illeciti o li impiegano come pedine nei loro affari. “Non è sempre una scelta”, mi spiega Naomi, un’assistente sociale che lavora a stretto contatto con i senzatetto. “Alcuni sono costretti a sparire. Altri si pentono ma non possono tornare indietro. La vergogna è troppo grande.”

la verità dietro il fenomeno Johatsu
Se stai cercando di capire cosa significhi essere un Johatsu, ricorda che non è solo un fenomeno culturale. È uno specchio delle pressioni di una società moderna che consuma le persone e le rigetta quando non servono più. Sparire è un atto di ribellione, ma anche una forma di resa. Se hai mai pensato di abbandonare tutto, di spegnere il telefono e svanire, sappi che i Johatsu sono l’ultima frontiera di questa fantasia. Un avvertimento e un’ispirazione. Chiudo il mio taccuino e mi lascio Sanya alle spalle. Cammino verso la stazione, circondato da volti che potrebbero appartenere a chiunque. Chissà, forse anche loro stanno pensando di evaporare. O forse l’hanno già fatto e io sono solo uno spettatore nel loro mondo. Il neon si spegne, ma il mistero rimane.
Hank Cignatta
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