La leggendaria storia degli 883 e il potere taumaturgico della nostalgia
E’ una sera come tante altre a Nevrotic Town: dopo essere rientrato dalla consueta passeggiata serale con la mia cagnona Noël mi areno sul divano e accendo la tv, nella vana speranza di trovare qualcosa che possa intrattenermi prima di perdere i sensi su questo giorno ed iniziarne uno nuovo qualche ora dopo. Inizio uno zapping svogliato tra i canali in chiaro della tv digitale italiana, dribblando talk show che commentano il recente risultato delle elezioni presidenziali americane, film che sono stati al cinema in prima visione per meno di tre minuti, reality show e menate varie ed eventuali. La maggior parte delle serie tv che stavo seguendo sono terminate o sono in fase conclusiva, quindi cerco una soluzione per dare un senso alla serata. Mi ricordo di aver visto su Youtube il trailer della serie tv intitolata Hanno ucciso l’Uomo Ragno, la spettacolare storia degli 883 diretta dal regista Sydney Sibilla e mi sono promesso di recuperarla non appena possibile. E quale momento migliore di una serata nella quale non si sa che cosa guardare?
Sono gli anni Novanta ed è il decennio delle Reebok Pump e dei Tamagotchi, dei capelli scolpiti con chili di gel radioattivo e delle serate passate in discoteche con piste affollate di giovani euforici che ballano su basi dai bpm incazzati. Un decennio che, in Italia, ha vissuto il suo strano mix di ingenuo ottimismo e inquietudine urbana. La televisione sfornava programmi che ancora oggi vengono ricordati ( Bim, Bum Bam, Solletico, Non è la Rai e molti altri), le edicole erano piene di fumetti di Dylan Dog e le piazze risuonavano delle hit pop più improbabili (avete mai sentito Pippa di meno, canzone portata da Enzo Iacchetti al Festivalbar del 1995 e remixato da Albertino o dalla Deejay Time gang?)
E proprio in questa miscela di sfrontatezza e malinconia, tra un walkman e una cabina telefonica, nasceva una leggenda musicale: quella degli 883. Hanno Ucciso l’Uomo Ragno è la serie che celebra uno dei gruppi più iconici di quel tempo, raccontando la storia di Max Pezzali e Mauro Repetto (gli 883 per l’appunto) e di come siano riusciti a modo loro a diventare l’incarnazione di una generazione.
La serie racconta gli esordi degli 883 declinata in otto episodi nella Pavia degli anni Novanta e dell’incontro tra due compagni di banco, Max (interpretato da Elia Nuzzolo) e Mauro (Matteo Oscar Giuggioli). Per chi conosce la storia (e l’ha vissuta) sa che gli 883 non erano solo una band. Erano due amici, due ragazzi comuni che sono partiti da lontano per giungere ancora più in là. Max, il ragazzo di provincia che racconta la vita con una schiettezza disarmante. E Mauro, l’anima eccentrica, che balla senza sosta sul palco mentre la folla esplode. Una coppia improbabile che potrebbe sembrare agli antipodi ma che, una volta insieme, riusciva ad incendiare le folle.
La serie li segue dall’inizio: dalla loro adolescenza fatta di sogni (e fregature) al successo improvviso che travolge tutto. Li possiamo vedere passare dalle prove nella tavernetta di casa dei genitori di Max ai concerti nelle balere, dalle prime fans alle conseguenze che solo la fama può portare. La serie non risparmia niente e fa emergere anche l’inquietudine di Mauro, la sua voglia di scappare e il suo senso di alienazione. Perché gli 883 hanno dato voce a una generazione, ma quel grido a volte suonava come una richiesta d’aiuto. Hanno Ucciso l’Uomo Ragno non è solo una serie musicale: è una storia che si riflette in milioni di vite. Max e Mauro rappresentano tutti quei ragazzi che si sentono invisibili, che sognano di diventare qualcuno. Anche solo per un istante. Ma tratta anche di riflessioni su un’epoca e su un Paese che sta cambiando, affacciandosi al nuovo millennio con con tanto entusiasmo e mille illusioni. È uno sguardo brutale e sincero sulla provincia italiana, su quel senso di comunità che può diventare soffocante e affettuoso nello stesso tempo. L’ossessione per la fuga, per il viaggio, la voglia di evadere dalla monotonia quotidiana: tutto questo emerge potentemente. Ma la serie non scade mai nella trappola della nostalgia facile. Al contrario, esplora i lati oscuri, l’isolamento, la tristezza che c’è dietro il successo. E dietro le risate e le feste, c’è sempre un’ombra. L’ombra di chi non sa più chi è, di chi ha perso qualcosa, un pezzo di sé per strada. La bellezza di questo prodotto televisivo risiede nella sua capacità di trasmettere emozioni vere, non filtrate. La serie non idealizza gli 883. Li mostra come ragazzi normali, come eroi senza armatura, con tutti i loro difetti e insicurezze. Mostra i successi, sì, ma anche le loro cadute, il crollo della band e la disillusione che ne segue. E alla fine, resta una domanda: chi ha ucciso l’Uomo Ragno? Forse è stato il tempo, o forse siamo stati noi stessi, cresciuti e distratti. Forse l’Uomo Ragno non è mai morto, ma è solo cambiato. Magari si nasconde ancora nelle notti d’estate, tra i vicoli delle città, nei jukebox impolverati dei bar di provincia. In un’epoca dove la musica è un frullato di algoritmi, Hanno Ucciso l’Uomo Ragno ci ricorda il potere delle storie vere, delle amicizie e dei sogni vissuti senza copione. E ci lascia con una sensazione di malinconia, quella di chi sa di aver vissuto un’epoca irripetibile ma che la porta ancora dentro e dove si era più spensierati senza particolari ed inutili sofismi.
Hank Cignatta
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