Il mito dei Genesis e della loro musica senza tempo

Il mito dei Genesis e della loro musica senza tempo

Interno. Un sabato sera qualunque. L’appartamento della Dani California del momento. Mi trovo in una reggia nella parte ricca di Nevrotic Town, dove a farla da padroni sono costosi elementi d’arredo e quadri che ho visto solo nei musei. Faccio girare il drink nel bicchiere dal quale sto sorseggiando un fenomenale Macallan Rare Cask del 2019. Roba d’alta classe.

Mi domando se quella bottiglia sia sua o di qualcuno che s’incazzerà non poco nel vedere quanto contenuto è evaporato dalla bottiglia. Mi siedo sul divano e poco dopo le prime note di Turn It On Again dei Genesis si propagano nella stanza. La Dani California ha degli ottimi gusti in tutto, cosa che trova conferma non appena mi conduce nella sua camera da letto nella quale si stende su lenzuola di seta nere.

Una diapositiva ricostruita con l’IA della Dani California del momento

Mi sembra di essere in un’episodio di Nip/Tuck, in cui la parte strana dell’episodio si sta per palesare da un momento all’altro. Do’ un sorso al mio costoso whiskey, poi torno a fissare la Dani California che improvvisa un balletto mentre accarezza le sue curve. Una colonna sonora perfetta per un momento perfetto.

Un rock che nasce tra college e visioni folli

C’è odore di moquette bagnata e di tè troppo forte quando i Genesis prendono forma nei primi anni Settanta. Sono ragazzi usciti dalla Charterhouse, un collegio inglese dove la noia era più letale di un colpo di pistola. Lì dentro, tra compiti e uniforme stirate germoglia una delle band più schizofreniche, poetiche ed influenti della storia del rock. Non cercavano il successo: cercavano una via di fuga, un’apertura psichedelica nel muro di mattoni del conformismo britannico.

I Genesis nella loro prima formazione

Il risultato? Una musica colta e visionaria che prende il rock e lo riveste di mitologia, costumi teatrali, maschere e racconti da incubo notturno. I Genesis non erano solo un gruppo: erano un rito collettivo.

Peter Gabriel: lo sciamano mascherato

Peter Gabriel, con il suo sguardo che trapassa l’anima, era il volto e la voce della prima incarnazione. Non era un semplice cantante: incarnava personaggi, appariva sul palco vestito da fiore, da volpe con abito rosso, da creatura aliena scappata da un sogno febbrile. Con lui, la band sembrava più una compagnia teatrale che un gruppo rock.

Peter Gabriel mentre indossa uno dei suoi numerosi camaleontici costumi

Album come Foxtrot o Selling England by the Pound sono un viaggio, un’esperienza che ti prendono per la gola e ti trascinano in una dimensione parallela. Gabriel non cantava, predicava. Non recitava, evocava. Il suo apporto non fu solo musicale: fu la costruzione di un immaginario che rese i Genesis unici nel panorama progressive.

L’addio di Gabriel: il vuoto e la rinascita dei Genesis

Poi il colpo di scena: nel 1975 Peter Gabriel lascia la band. Troppa pressione, troppa esposizione, troppi compromessi. Il gruppo rischia di collassare come un palazzo di carta, perché senza di lui chi avrebbe mai potuto reggere quel ruolo? Le luci del palco sembravano spente per sempre.

La prima pagina della rivista musicale Melody Maker che paventa la possibilità ,poi realizzatasi, dell’abbandono di Peter Gabriel dai Genesis

E invece no. La soluzione era già dietro la batteria. Un uomo con un volto da impiegato delle poste, con la voce sorprendentemente calda e graffiante, pronto a diventare il frontman che nessuno si aspettava: Phil Collins.

Phil Collins: il batterista che diventò re

Collins non aveva le piume di Gabriel, né le sue maschere. Aveva però qualcosa di diverso: un’empatia immediata, un senso popolare che trasformò i Genesis da culto progressive a macchina da guerra planetaria. Con lui al microfono, album come A Trick of the Tail e Duke mantennero le radici prog, ma aprirono la strada a melodie più accessibili, fino all’esplosione commerciale di Invisible Touch.

Collins prese il gruppo e lo rese universale. Meno teatro, più cuore. Meno allegorie mitologiche, più storie che parlavano alla gente. In quel passaggio, i Genesis cambiarono pelle ma non persero potenza: diventarono anzi, una delle band più amate degli anni Ottanta capace di rivaleggiare con giganti come U2 e Police.

I Genesis e Phil Collins in una foto degli anni Ottanta

Genesis: un nome inciso nella storia del rock

La parabola dei Genesis è una mutazione continua: dal prog barocco e teatrale degli inizi, al pop colossale degli anni d’oro con Collins, fino al ritorno sporadico in tour come dinosauri sopravvissuti a tutte le estinzioni. Non c’è mai stato un gruppo così capace di reinventarsi senza implodere.

La loro eredità è doppia: Gabriel ha lasciato la mitologia, l’arte, la teatralità estrema. Collins ha regalato l’accessibilità, il ritmo pulsante, la capacità di parlare a milioni di persone. Due anime incompatibili che, paradossalmente, hanno reso i Genesis immortali.

Conclusione: il mito continua

I Genesis non sono mai stati solo una band: sono stati un linguaggio, un teatro, un’epopea rock che ha attraversato decenni. Hanno insegnato che il rock non deve mai scegliere tra cervello e cuore, tra complessità e semplicità. Può essere entrambe le cose, anche nello stesso istante. Guardando indietro i Genesis non sembrano solo una storia musicale: sono una parabola esistenziale, la prova che anche dietro i muri di un collegio inglese può nascere un’urgenza che scuote il mondo.

Hank Cignatta

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