Boyz n the Hood: il grido di South Central

Boyz n the Hood: il grido di South Central

Il battesimo del fuoco: quando il cinema scopre South Central

C’è una Los Angeles che non luccica. Una Los Angeles che non ha nulla a che fare con le palme di Beverly Hills, con i tramonti su Santa Monica o con i sorrisi bianchi da pubblicità di dentifricio. È una città divisa da un muro invisibile fatto di paura, povertà e razzismo sistemico. E in quell’abisso, nel 1991, un giovane regista di appena ventitrè anni decide di infilare la telecamera come un bisturi affilato nella carne viva della sua gente. Il suo nome è John Singleton, e Boyz ‘n’ the Hood non è solo il suo esordio: è un urlo. È una dichiarazione di guerra, a prova che il cinema può ancora puzzare di sangue, sudore e verità.

John Singleton all’epoca di Boyz’n’ da hood

Singleton non inventa nulla. Racconta ciò che ha visto crescendo a South Central Los Angeles, dove la vita è una roulette russa quotidiana. Il film, scritto quando aveva solo vent’anni, è un testamento in diretta di un’America che preferisce girarsi dall’altra parte. Eppure, quando uscì, Boyz ‘n’ the Hood costrinse tutti a guardare con gli occhi spalancati.

South Central come campo di battaglia: dove il destino ha il grilletto facile

Le prime immagini del film sono un colpo allo stomaco. Bambini che camminano tra ghetti segnati da proiettili e vetrine infrante. Il personaggio di Tre Styles (interpretato da Cuba Gooding Jr.) è il filtro morale del film, il ragazzo che cerca una via di fuga da quel circo fatto di violenza e disperazione. Accanto a lui ci sono Ricky, il fratello sognatore che vuole una borsa di studio per il football e Doughboy, interpretato da un giovanissimo Ice Cube, simbolo di rabbia, orgoglio e autodistruzione.

Da sinistra: Ice Cube, Cuba Gooding Jr. e Morris Chestnut

Ogni vicolo, ogni casa di South Central, è un personaggio. Le sirene della polizia diventano la colonna sonora di un’infanzia rubata. Le armi passano di mano in mano con la stessa facilità delle sigarette e la morte è una possibilità quotidiana, banale. Quasi burocratica. Singleton non ci mostra la violenza come spettacolo, ma come routine.
Non ci chiede di indignarci, ci chiede di capire e questo è molto più scomodo.

Furious Styles: la voce della coscienza in un mondo senza padri di Boyz N Da Hood

Nel cuore di Boyz ‘n’ the Hood c’è Furious Styles, interpretato magistralmente da Laurence Fishburne. Un padre nero che educa suo figlio a pensare, a sopravvivere e a non cadere nella trappola del sistema. Ogni suo discorso è un sermone laico, una lezione di economia, di etica e di dignità. Parla ai personaggi del film ma in realtà si rivolge direttamente allo spettatore. Quando spiega ai ragazzi del quartiere come funziona la gentrificazione (ovvero come la proprietà privata venga usata per sradicare le comunità nere) il film diventa un trattato politico, girato con la camera in mano e il cuore in gola.

Singleton trasforma un dramma urbano in un manifesto socioeconomico e lo fa con una lucidità spaventosa per un regista esordiente. Furious non è un eroe. È un sopravvissuto che ha deciso di restare sveglio. È la dimostrazione che la conoscenza può essere un’arma più potente di una pistola, anche se nessuno vuole ascoltare.

Ricky e Doughboy: fratelli di sangue, figli del destino

Se Boyz ‘n’ the Hood fosse una tragedia greca, Ricky e Doughboy sarebbero i figli di Edipo. Uno sogna il riscatto, l’altro si arrabatta nel fango della realtà. Ricky corre sul campo, con la speranza di una vita nuova, ma ogni passo lo avvicina al suo destino segnato. Doughboy, invece, ha già capito che non c’è via d’uscita. Il suo sguardo è una sentenza.

Ice Cube nel ruolo di Doughboy

La scena della morte di Ricky è una delle più strazianti della storia del cinema americano. Il suo corpo caduto sull’asfalto, il grido disperato del fratello e il silenzio che segue: quello è il momento in cui Hollywood smette di essere glamour e diventa reale. Singleton non chiude gli occhi, ti costringe a guardarli e a restare, mettendoti a fare i conti con la tua coscienza.

Quando Doughboy, alla fine, riflette sulla morte del fratello e sulla sua impotenza, rompe la quarta parete morale del film.
La frase “O non lo sanno, non si fanno vedere o non gli importa di cosa succede nel quartiere” non è solo un dialogo: è un epitaffio inciso sull’indifferenza americana.

Un’esplosione culturale: l’impatto di Boyz ‘n’ the Hood

Quando Boyz ‘n’ the Hood debuttò al Festival di Cannes nel 1991, nessuno era pronto. Il film vinse premi, scatenò dibattiti e fece di John Singleton il più giovane regista e il primo afroamericano mai candidato all’Oscar per la regia. Un record che non era solo simbolico, ma rivoluzionario. La cultura pop cambiò. Ice Cube, già leader dei N.W.A., divenne un simbolo di transizione dal rap alla recitazione, portando con sé la rabbia del ghetto nel linguaggio cinematografico. Il film aprì la strada a un’intera ondata di cinema urbano afroamericano: Menace II Society, Juice, Poetic Justice (ancora di Singleton, con Tupac Shakur).

Il grido che continua: da Compton a oggi

Trent’anni dopo, Boyz ‘n’ the Hood non è invecchiato. Anzi, è diventato più necessario. In un’epoca segnata dalle rivolte di Ferguson e Minneapolis, dalle cronache di polizia che ancora oggi riempiono le notti di sirene, il film di Singleton suona come una profezia. È la dimostrazione che alcuni posti, nonostante l’impegno di una comunità, fatica ancora oggi a cambiare pelle. Rivederlo oggi significa confrontarsi con la domanda più scomoda di tutte:
“Abbiamo imparato qualcosa?” E la risposta, purtroppo, è spesso un no muto.

Conclusione: Boyz da hood: il sogno, la rabbia, la verità

Boyz ‘n’ the Hood non è solo un film. È un documento umano, un requiem urbano, una lezione di sopravvivenza.
John Singleton non voleva commuovere, voleva smuovere le coscienze. E ci riuscì. Con una cinepresa, un quartiere e un sogno di redenzione. Oggi il suo grido risuona ancora come un promemoria per l’America e per chiunque viva ai margini del mondo: “Restate svegli. Non lasciate che la realtà vi uccida prima del tempo.”

Hank Cignatta

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