
Cosa resta del Live Aid 40 anni dopo
Ho ancora negli occhi le immagini dell’immenso concerto che ha celebrato l‘addio alle esibizioni dal vivo di Ozzy Osbourne e dei Black Sabbath. Un immenso funerale laico che ha sancito la fine di un’era e scritto una grande pagina della storia del rock. Il mio amico algoritmo di Youtube mi fa sommessamente presente che oggi (ieri, nella fascia temporale in cui verrà pubblicato questo articolo) ricorre il quarantesimo anniversario del Live Aid, un immenso concerto dagli intenti benefici che è stato anche, pioneristicamente parlando, il più ambizioso progetto di trasmissione satellitare mai pensato e realizzato dall’Uomo fino in quel periodo.

L’idea del Live Aid
È il 13 luglio 1985 e mentre Reagan sorride dalla Casa Bianca con la serenità di un attore consumato, a Londra e Filadelfia sta andando in scena il più assurdo, roboante e contraddittorio spettacolo musicale che il pianeta abbia mai ospitato: il Live Aid. Quarant’anni dopo, seduto qui davanti alla mia macchina da scrivere virtuale mentre mando giù bourbon tiepido da una tazza col logo degli Stones, mi chiedo se abbia avuto senso e se non fosse tutto soltanto un gigantesco sogno condiviso. O peggio, un’illusione collettiva.

L’ambizione benefica di Bob Geldof
Dietro questa follia caritatevole c’era lui, Bob Geldof, ex cantante dei Boomtown Rats: tuttò iniziò con una canzone per raccogliere fondi contro la carestia in Etiopia intitolata “Do They Know It’s Christmas?”. Ed è proprio quel pezzo che puntualmente ogni dicembre spunta fuori dalle casse dei supermercati come un fantasma di Dickens sotto psicofarmaci. Il brano, scritto da Bob Geldof e dal cantautore e produttore discografico Midge Ure, fu registrato in un solo giorno da un supergruppo battezzato Live Band.
La band annoverava nella sua formazione la partecipazione di artisti del calibro di George Michael, Boy George, Phil Collins, Bono, Geldof, Ure e molti altri. Dopo gli ottimi risultati ottenuti dal brano (oltre tre milioni di vendite nel Regno Unito nel 1984, anno in cui il brano venne rilasciato nonché il primo posto in classifica in tredici Paesi) Geldof decise che si poteva fare ancora di più: pensò in grande, così grande che anche oggi, dopo quarant’anni, sembra difficile crederci davvero. Nello stesso anno prese piede anche il progetto della superband degli USA for Africa (capitanata da Michael Jackson e Lionel Richie e prodotta da Quincy Jones), che incise il brano We Are The World.

Un evento simultaneo, due continenti collegati via satellite, circa centosessantamila spettatori negli stadi di Londra e Philadelphia, un miliardo e mezzo di spettatori incollati agli schermi dei televisori a tubo catodico. La storia di stava scrivendo allo stadio Wembley di Londra e al John Fitzgerald Kennedy di Philadelphia. Una roba da Guerra Fredda, roba da “Dr. Stranamore incontra Woodstock”, con Reagan e Gorbaciov che probabilmente lo guardavano dallo stesso televisore immaginando come spartirsi il pianeta dopo l’ultimo assolo dei Queen.
Freddie Mercury: L’uomo che rubò il Live Aid
Eh si, parliamo di Freddie. Quel pomeriggio a Wembley il mondo vide il più grande furto della storia musicale moderna. Freddie Mercury salì sul palco, afferrò l’anima del Live Aid per il collo e non la lasciò più andare, nemmeno quando scese dalle assi che aveva incendiato. Fu l’apice assoluto dei Queen, venti minuti in cui Mercury ipnotizzò settantaduemila spettatori e qualche centinaio di milioni davanti alle TV, saltando da “Bohemian Rhapsody” a “Radio Ga Ga” con la grazia selvaggia di un pugile ballerino.
Quarant’anni dopo ci troviamo ancora qui a parlarne, a vivisezionare ogni movimento di Freddie e degli altri membri dei Queen come se avessero una qualche risposta nascosta sui grandi misteri del cosmo. Ma l’unica verità è che Mercury era Mercury e fatta eccezione per qualche raro caso, il resto è solo polvere di stelle e leggenda pop.

Live Aid: Beneficenza o autocelebrazione collettiva?
Per quanto l’evento avesse una facciata umanitaria, il retrogusto fu amaramente autoreferenziale. Bob Dylan, con il suo solito cinismo da menestrello apocalittico, lo disse chiaramente: parte dei soldi potevano andare ai contadini americani in difficoltà. Geldof si incazzò, il pubblico applaudì Dylan per educazione ma l’imbarazzo rimase perché sotto il mantello lucido del rock’n’roll caritatevole si intravedevano le ombre pesanti dell’ipocrisia.
Gli anni Ottanta erano così: schiacciati tra eccessi di generosità mediatica e una superficialità scintillante che odorava di lacca per capelli e champagne scadente. Il Live Aid incarnò tutto questo, in modo così lampante da risultare quasi commovente nella sua ingenuità.
E quarant’anni dopo, cosa rimane?
Oggi, che viviamo nell’epoca del cinismo digitale e del burnout emozionale da hashtag benefico, guardare indietro a quel giorno di luglio fa uno strano effetto. Ci manca forse quel tipo di ingenuità, quel “facciamo qualcosa” ingenuo ma sincero. Quarant’anni dopo, le rockstar continuano a cantare per poi andare in pensione e diventare qualcosa da studiare nei musei, le guerre continuano a esplodere e la fame resta sempre lì, maledettamente presente.

È cambiato tutto e niente, proprio come dicevo. Il Live Aid ci regalò un pomeriggio d’illusione, una bolla di musica e altruismo apparente che scoppia ogni volta che la realtà torna a bussare alla porta. Ma, dopotutto, forse non c’era niente di male a illudersi un po’. Alla fine, anche il rock’n’roll vive di illusioni.
Hank Cignatta
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