
Black Rain, il samurai metropolitano di Ridley Scott
Finalmente a casa. Poggio le mie ingombranti terga sul divano dopo essermi fatto una doccia ristoratrice, mentre fuori la colonnina di mercurio non accenna ad abbassarsi neanche di notte. Accanto a me il raffrescatore che mi permette di respirare e di non trasformarmi così rapidamente in una pozza di liquame industriale. Su di me, nonostante i tremila gradi, la mia cagnona Noël, felice di vedermi dopo alcune settimane in giro per l’Italia a promuovere il giornalismo Gonzo. Muovo sinuosamente il telecomando del mio televisore intelligente in cerca di qualcosa che possa spezzare la mia noia e la mia curiosità si posa su Black Rain- Pioggia Sporca, interpretato da Michael Douglas e diretto nel glorioso anno 1989 da Ridley Scott. E nella vana speranza che la pioggia, quella in grado di portare un po’ di refrigerio arrivi in questa rovente nottata di metà giugno, clicco su play senza esitazione alcuna.

Sulle tracce di un’apocalisse nera: Osaka, anni Ottanta
Un inferno lucido e piovoso, come se Ridley Scott avesse svuotato Blade Runner nel porto giapponese e lasciato galleggiare i cadaveri. Black Rain – Pioggia Sporca non è solo un action-thriller dallo stile ipercinetico. È una guerra tra culture, un incubo metallico rivestito di pelle nera, un esercizio di puro cinema anni Ottanta che diventa elegia del disorientamento occidentale in terra orientale. Il film è la storia di due poliziotti newyorkesi, Nick Conklin (Michael Douglas) e Charlie Vincent (Andy Garcia), i quali devono riportare in Giappone un mafioso della Yakuza di nome Sato. Tutto fila liscio fin quando i due finiscono risucchiati in un ingorgo fatto d’onore, piombo e pioggia acida. Non è tanto la trama che conta. È l’atmosfera. È il senso di disorientamento. È il fumo negli occhi.

Black Rain: Michael Douglas e’ un antieroe reazionario
Douglas in Black Rain non interpreta un poliziotto ma una figura archetipica: l’uomo bianco che non capisce più il mondo che cambia. Conklin è arrogante, sporco, borderline e corrotto. In Giappone si muove come un dinosauro in un museo di porcellane. Non rispetta le regole, non comprende il codice. Eppure il film non lo condanna. Anzi, sembra flirtare con l’idea che l’unico modo per sopravvivere nel caos moderno sia non cambiare mai. La sua rabbia è la stessa dell’America di Reagan: un ruggito inascoltato in un mondo globalizzato che non parla più inglese, ma in cui le multinazionali giapponesi stanno comprando tutto, in contanti. Comprese le Harley Davidson. E Ridley Scott lo sa. Anzi, lo mostra. Conklin, alla fine, può anche imparare a piegarsi ma resta un cowboy, fino alla fine.

Yakuza, Katane e le Luci al Neon: L’Estetica del Disagio
Quello che eleva Black Rain sopra la media è la regia viscerale di Scott. Ogni fotogramma trasuda tensione. Le strade di Osaka sembrano uscite da un videogioco cyberpunk, ma con più puzza di benzina e meno speranza. L’acciaieria che diventa campo di battaglia è un anticipo della Detroit di RoboCop, ma senza il sarcasmo. È tutto maledettamente reale. La fotografia di Jan de Bont (quello di Die Hard, per intenderci) è uno spettacolo di luci e fumo. Le ombre divorano i personaggi. I riflessi di neon colorati non illuminano, ma deformano. Siamo lontani dai cliché zen del Giappone spirituale. Questo è un inferno post-industriale dove l’onore è solo una parola da scrivere col sangue.
La Guerra Invisibile: America vs Giappone
A fine anni Ottanta, il nemico non era più l’URSS, ma l’economia giapponese. Le auto Toyota. I microchip Sony. Le fabbriche efficienti e silenziose che stavano facendo a pezzi il sogno americano. Black Rain è un thriller, sì, ma anche una capsula di paranoia. È l’inconscio yankee che sputa fuoco contro un sistema che non può più controllare. Non è un caso che il detective giapponese Masa (Ken Takakura, perfetto nella sua rigidità di samurai in abito grigio) diventi la coscienza del film: un codice che Conklin non capisce, ma che è costretto ad accettare. La collaborazione tra i due è una metafora amara: l’Occidente violento e arrogante può anche imparare qualcosa dall’Oriente. Ma solo dopo averlo ferito.
Una Ballata Violenta per Tempi incerti
Black Rain è troppo scomodo per essere mainstream, troppo elegante per essere un puro film d’azione, troppo sfocato per essere un poliziesco tradizionale. È un ibrido, come lo erano gli anni Ottanta. È la cronaca di una caduta, quella dell’eroe americano, ma anche un testamento visivo della paranoia geopolitica travestita da intrattenimento. Il film non ti lascia speranza, solo pioggia nera. E mentre la Yakuza sparisce tra i fumi d’acciaio, ti accorgi che il vero nemico non è là fuori, ma dentro la testa di chi ha creduto che il mondo fosse suo per diritto di nascita.
Hank Cignatta
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