Ben Kramer: Velocità, Cocaina e Tradimenti dello squalo di Miami
Miami, 1986. Il sole ha la stessa intensità di una rovente palla di fuoco e il rumore delle barche offshore echeggia come una colonna sonora elettronica composta da Giorgio Moroder per un’orgia a cielo aperto. È qui che vengo catapultato nel mondo di Ben Kramer. Non un semplice pilota, ma un’anomalia temporale: una creatura metà uomo, metà ossessione, lanciata a cento nodi verso la distruzione. Il suo nome serpeggiava tra i moli come una leggenda urbana: Kramer il corridore, Kramer il contrabbandiere, Kramer l’impero ambulante.

Infiltrarsi nel suo regno è stato come ingoiare un serpente vivo. Nessuna redazione l’avrebbe approvato. Ma questa è la regola numero uno del giornalismo Gonzo: infilarti nella narrazione fino al punto di perdere la distinzione tra osservatore e protagonista. Così mi sono messo in cerca del re delle acque oscure di Miami.
Ben Kramer, Il figlio bastardo del mare e del denaro
Ben Kramer non era solo un pilota offshore bensì la sintesi perfetta tra adrenalina e avidità. Cresciuto tra biscotti della fortuna e rotte della cocaina, Kramer non si è mai accontentato di vincere le gare. Voleva dominare. Le sue barche, dei mostri da oltre 1000 cavalli, sembravano missili nucleari con lo sterzo. Il rumore dei motori era come un urlo di guerra diretto contro Dio e la DEA.

La leggenda vuole che abbia corso sotto l’effetto di qualunque sostanza fosse in grado di fargli dimenticare il fatto di stare rischiando la pelle ogni secondo. E forse è proprio lì che risiede il suo fascino malato: nella convinzione cieca che si possa vivere ogni istante come fosse l’ultimo. E guadagnarci pure. Con i proventi del narcotraffico ha fondato la Apache Powerboats, diventando un nome di spicco non solamente nel mondo dello sport ma anche nell’ambiente criminale.
Kramer e il Cartello: cronaca di una discesa annunciata
Dietro le coppe lucidate e le ragazze a bordo piscina si nascondeva un impero più oscuro del ventre di uno squalo. Ben Kramer, ufficialmente imprenditore marittimo, era in realtà il re della logistica narco-nautica tra la Colombia e la Florida. I suoi catamarani erano più rapidi dei radar della Guardia Costiera, più agili di un’inchiesta federale.

Nel 1987, la DEA lo braccava come si caccia una bestia mitologica. Ma lui continuava a correre. Dicevano che i suoi motoscafi venissero progettati appositamente per trasportare tonnellate di coca e sparire prima ancora che il sole sorgesse. Più che un uomo, era un’ombra col motore V8.

Una paranoia più veloce del suono
Kramer era diventato un fantasma in carne e ossa. Nessun reporter riusciva a intervistarlo. Nessuno lo vedeva due volte nello stesso posto. Io ci sono quasi riuscito, per sbaglio o per divina follia. Lo incontrai al Flamingo Park, alle 3 del mattino, vestito come Tony Montana in dopo sbronza: occhiali scuri, tuta Adidas e un’aria di chi ha già visto il proprio funerale e ci ha scommesso sopra. “Non puoi vincere se non sei pronto a morire,” mi disse. Poi salì su una Corvette nera e sparì.

Il giorno in cui il mare si vendicò
Nel 1989 arrivò la fine. Non in una gara, come avrebbe meritato, ma in un’aula di tribunale. Venne arrestato e condannato per traffico di droga e omicidio su commissione. La sua discesa fu rovinosa, ma non silenziosa. L’FBI lo trattava come un boss, i giornalisti come un mito. Solo i pescatori nei bar delle Keys sapevano la verità: il mare lo aveva accolto come figlio prediletto per poi sputarlo fuori come un’ulcera mal curata.

L’eredità del caos: Ben Kramer oggi è leggenda
Ben Kramer è scomparso dai radar ma non dalle storie. Ogni tanto, nei canali di Miami, qualche vecchio marinaio racconta di aver visto un motoscafo nero sfrecciare nel buio, senza luci né suono. “È Kramer,” dicono. “Non lo prenderanno mai del tutto.” E forse hanno ragione. Perché Ben Kramer non è solo un uomo. È un simbolo malato di ciò che accade quando la velocità incontra la disperazione. Un’epopea gonfiata di benzina, sangue e paranoia.
Epilogo: perché ho scritto questa dannata storia?
Perché Kramer rappresenta l’America che corre fino a esplodere. Quella che preferisce bruciare piuttosto che spegnersi lentamente. E in un mondo in cui tutto è algoritmo e contenuto riciclabile, c’è bisogno di raccontare storie come la sua — vere, brutali ed impossibili da monetizzare su TikTok.
Hank Cignatta
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