
Ruggine e cenere: Cosa è rimasto del Grunge e della Generazione X?
L’eredità del Grunge: un viaggio nella musica degli anni ’90
Il bastardo che vi scrive è imprigionato in un mondo tutto suo, fatto di valori in cui il contatto umano valeva ancora qualcosa. Anche un semplice vaffanculo aveva la sua valenza, prima che diventasse una forma di saluto tra individui che neanche si guardano in faccia. La mia mente è un dannatissimo armadio, dove i miei ricordi sono messi sotto naftalina e pronti per essere indossati per evitare di andare nei megastore a due piani in cui vendono artificiose esperienze da raccontare ad annoiati amici durante gli aperitivi. E’ appurato che ormai il rock stia vivendo i suoi ultimi e gloriosi momenti, grazie alle ultime inossidabili rockstar che tutto vogliono sentire tranne che di appendere gli strumenti e il microfono al chiodo.

Apatia generazionale
Per quanto possano piacere o meno, questi ragazzi terribili sono l’ultimo vero baluardo di un genere musicale oramai allo sbando, non più in grado di emozionare e suscitare interesse verso una generazione che ha sviluppato una sorta di atteggiamento antidolorifico nei confronti della realtà che la circonda e senza riuscire a dire la loro al riguardo. Si grida, certo. Si va in piazza per protestare, indubbio. Ma una volta scemata l’attenzione, il problema sparisce come polvere sotto il tappeto delle coscienze. Tanto cosa volete che sia, domani il sole sorgerà di nuovo. Arriverà una nuova erezione marmorea da controllare e la giornata inizierà con una copiosa pisciata e un rutto mefistofelico come personalissimo buongiorno a questo mondo di ladri. Una volta invece si usava la musica per cercare di lanciare un messaggio.

Generazione X e Grunge: un legame indissolubile
Per cercare di unire una generazione, che aveva qualcosa da dire in base al malessere del periodo. E il rock è stato uno dei massimi manifesti di questo tipo di sentimento umano. Le idee hanno cambiato il mondo e ci hanno traghettato verso periodi in cui la gente aveva ancora qualcosa da dire. C’è stato un periodo, dall’inizio fino alla prima metà degli anni Novanta, in cui una generazione ha utilizzato la musica per esprimere ad una nazione (e al mondo intero) il suo senso di inadeguatezza in una società che non li capiva. Questi ragazzi erano il risultato di quel benessere economico comparso in seguito alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Un periodo di benessere generale, dove l’ottimismo era il sentimento più diffuso. L’incremento demografico non è stato altro che una conseguenza di questa situazione di benessere, che ha portato ad un inevitabile ricambio generazionale.
Generazione X : tra ribellione e disillusione sociale
Erano i figli di quelle persone che hanno lottato per i grandi cambiamenti avvenuti nel Novecento, come il declino del colonialismo, la caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda. L’aspettativa nei confronti del futuro era molta e si pensava che anche loro potessero fare qualcosa di grandioso, proprio come i loro genitori. Ma una volta diventati dei giovani adulti, vissero una situazione nella quale mancava un’identità sociale ben strutturata e definita, tanto da essere definita come Generazione X. Vennero etichettati come persone apatiche, ciniche, privi di qualsivoglia volti o affetti. La situazione in America, da sempre metronomo dell’andamento delle cose nel mondo libero, non era delle migliori. Specialmente a Seattle, ridente cittadina nello Stato di Washington, c’era un gran fermento nel mondo musicale underground.

Il grunge come fenomeno mondiale: da Seattle al mondo
C’era una volta il grunge. Un suono, una città, una generazione. Un’epoca di camicie di flanella rubate dai cassonetti della beneficienza, di chitarre incazzate ed amplificatori sporchi di sudore e birra. Seattle era il Vangelo e Cobain il profeta (anche commerciale). Non importa se volevi o no farne parte: eri inghiottito nel vortice, e non potevi scappare. Ora, trent’anni dopo il suicidio di Kurt Cobain, il grunge è una polvere fine che si deposita sugli scaffali delle boutique hipster. Ma cosa resta veramente? Per capirlo bisogna tornare agli anni Novanta, quando la Generazione X scoprì di essere un ossimoro ambulante. I figli del boom economico, cresciuti con MTV e McDonald’s, capirono presto che il sogno americano era una truffa. Lavori temporanei, università troppo care e un futuro incerto: questo era il canovaccio delle loro esistenze. Eppure, non c’era una vera rivoluzione in corso, niente ideali di Woodstock o lotte per i diritti civili. Solo una ribellione passiva fatta di disillusione e sarcasmo.

Ed è qui che il grunge prese piede. Non come un movimento intenzionale, ma come una terapia collettiva. Le band come Nirvana, Pearl Jam, Alice in Chains, e Soundgarden urlavano quello che tutti pensavano: “Non sappiamo dove stiamo andando, ma non vogliamo comunque andare lì.” Ma adesso? Ora il grunge suona come un fantasma invecchiato, un’eco che riecheggia nei documentari di Netflix e nei vinili ristampati venduti a 50 euro al pezzo (quando va bene). L’industria ha consumato ciò che c’era di autentico. Cobain si starà rivoltando nella tomba. O forse no: probabilmente sapeva già che sarebbe finita così.

E’ il 1989 quando i Nirvana firmano un contratto con l’etichetta discografica indipendente Sub Pop Records e danno alle stampe il loro primo album, Bleach. Il nome, tradotto letteralmente come candeggina, fa riferimento ad una campagna di prevenzione contro l’AIDS in vigore all’epoca e scoperta da Cobain stesso, dove le autorità sanitarie consigliavano a chi facesse uso di eroina di passare della candeggina sugli aghi delle siringhe prima di adoperarle.

L’album presentava delle sonorità che erano diverse rispetto a tutto quanto si era sentito o si stesse sentendo fino ad allora. Era un suono incazzato, ma non era metal (e vi ci si ispirava). Aveva dei testi taglienti e la struttura ritmica dei pezzi non era particolarmente complessa.

Il grunge non è mai stato solo musica ma bensì un riflesso del malessere di un’intera generazione. All’epoca divenne un vero e proprio stile di vita molto diffuso tra i giovani di Seattle, per poi diffondersi via via in tutta l’America e in tutto il mondo. Le ragazze venivano chiamate Riot Grrrl e il termine in questione diede anche vita ad un sottogenere del grunge stesso. I ragazzi si vestivano con camicie di flanella in puro stile boscaiolo e con dei jeans rigorosamente strappati, come forma di ribellione ai canoni imposti dalla società e dall’industria della moda.

E chi glielo spiega ai giovani d’oggi, che spendono fior di quattrini per dei pantaloni già strappati o bucati per evitare di essere out? Che tristezza. Insomma, era in atto una vera e propria rivoluzione musicale, culturale e generazionale. Ora il suo spirito è stato saccheggiato e trasformato in una caricatura. Camicie di flanella vendute a centinaia di euro, concerti tributo che sembrano ricreazioni teatrali. È un culto svuotato, un’operazione nostalgia destinata ai Millennials e ai Gen Zers che non l’hanno mai vissuto. Eppure, qua e là, qualcosa resiste. Piccole band indie che suonano nei garage, punk che si mischiano con il grunge in una nuova forma ibrida. I vecchi locali di Seattle che ancora odorano di muffa e sigarette stalle. Non è più mainstream e forse è meglio così. Il grunge in fondo non è mai stato fatto per la massa. La vera eredità del grunge e della Generazione X non è un suono o un look ma un modo di pensare. È il diritto di dire no , di essere stanchi, di rifiutare di conformarsi. È il nichilismo come resistenza silenziosa, un rifiuto di fingere che tutto vada bene quando non lo è. Oggi quel seme vive nei meme, nel dark humor che popola i social media, nelle piccole ribellioni quotidiane contro il conformismo digitale. È come un virus, invisibile ma persistente. Non puoi uccidere il grunge, perché il grunge non era mai stato vivo. Era una ferita aperta e come tutte le cicatrici, resterà per sempre. Perché, anche se sbiaditi, anche se ricoperti di ruggine, i pezzi del grunge e della Generazione X sono ancora qui, tra le crepe. Basta sapere dove guardare.
Hank Cignatta
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