
Una bugia di troppo: Eddie Murphy e la trappola delle mille parole
L’estate spinge forte nel momento in cui scrivo questo articolo. L’ennesima notte tropicale mi tiene sveglio, in mezzo all’autostrada ad alta densità dei miei pensieri. La mia Noël dorme il sonno dei giusti nell’angolo della casa secondo lei più fresco e io punto il telecomando sullo schermo della mia televisione intelligente come una pistola. Scorro le locandine dei film che mi si palesano pronti ad intrattenermi in questa ennesima rovente notte insonne, finché non mi imbatto in una pellicola che non avevo mai visto. Si intitola Una Bugia di Troppo , è del 2012 e vede Eddie Muprhy come protagonista in un ruolo decisamente insolito. La curiosità avanza e il tasto play si preme praticamente da solo.
La trappola delle mille parole
Se dico Eddie Murphy, il tuo cervello si accende come una sala slot alle tre del mattino. Si, dico proprio a te che stai leggendo questo articolo. Ti partono in testa risate da Beverly Hills Cop, flash di Il Principe Cerca Moglie, quel ghigno dentato che ha cresciuto una generazione di spettatori a suon di battute fulminanti e che per anni, qui in Italia, ha avuto la risata di Tonino Accolla (già anche leggendario e compianto doppiatore italiano di Homer Simpson).

Poi arriva Una Bugia di Troppo (A Thousand Words), e Murphy si ritrova intrappolato in una commedia mistica dove ogni parola lo avvicina alla tomba. Non è un modo di dire: il suo personaggio, Jack McCall, è un agente letterario dalla parlantina tagliente abituato ad ottenere ciò che vuole con i suoi modi decisi e il carattere intraprendente. La sua vita si appresta ad essere sempre più interessante anche lavorativamente parlando quando cerca di convincere un guru spirituale a pubblicare il suo libro con la casa editrice che McCall rappresenta. Poco dopo è fisicamente legato a un albero di fico magico e ogni parola che pronuncia fa cadere una foglia. Mille parole. Poi la morte. Immagina: un uomo che vive vendendo aria fritta come un broker di sogni a Wall Street costretto a tacere. È come chiedere a Keith Richards di smettere con la chitarra: una condanna a morte lenta.

Una bugia di troppo e Il silenzio come tortura
Jack McCall vive di bugie ben confezionate, di conversazioni velenose, di chiacchiere vendute come verità. Fino a quando cerca di fregare un guru spirituale. Risultato: maledizione botanica. Un fico appare nel suo giardino e diventa la clessidra vegetale della sua esistenza. Ogni foglia è una parola, ogni parola un passo verso la fossa. Ti accorgi subito che non è una gag alla Dr. Dolittle. È una roulette russa linguistica: la pistola è nella tua bocca e il grilletto è la tua lingua.

Eddie Murphy e il paradosso dell’attore muto
Eddie Murphy è sempre stato un maratoneta del dialogo, uno che poteva trasformare anche la lista della spesa in un pezzo da stand-up comedy. Qui gli tagliano il microfono e lo lasciano in balia di smorfie, gesti, espressioni disperate. È come vedere Muhammad Ali costretto a combattere a mani legate. Il risultato è un esercizio strano: Murphy recita con il corpo, con la faccia, con gli occhi spalancati come fari nella nebbia. Funziona? A tratti. Ma è come chiedere a Miles Davis di fischiare invece di suonare la tromba: la magia è dimezzata. Ma al di là di tutto è un film capace di invitare ad una precisa riflessione.
Perché una bugia di troppo funziona, nonostante tutto
Sì, lo so: i critici l’hanno trattato come un avanzo di frigorifero. Rotten Tomatoes lo ha messo alla gogna e su Metacritic il punteggio è un funerale a porte chiuse. Ma il punto è che Una Bugia di Troppo funziona per le stesse ragioni per cui certi vecchi vinili rigati suonano ancora bene: imperfetto, storto e proprio per questo autentico. Funziona perché prende Eddie Murphy e lo mette in un contesto che lo forza a reinventarsi, a passare dall’urlo alla smorfia, dalla raffica di battute al linguaggio fisico. Funziona perché il concetto di “parole contate” è universale: una miccia narrativa che ti mette addosso una pressione che senti anche tu spettatore. Non è solo intrattenimento: è una piccola lezione mascherata da commedia, e se riesci a guardarlo senza il filtro della critica, ti accorgi che la storia ha un cuore sincero e che, dietro le gag, parla della paura di sprecare la vita in chiacchiere inutili. Che è un po’ quello che facciamo tutti quanti, specialmente nell’era dei social network.

La morale sotto l’umorismo
Alla fine, il film ti piazza in faccia una verità che non puoi scansare: la parola è una droga. Ne abusi senza pensarci, la sputi addosso agli altri per riempire silenzi che ti fanno paura. E quando te la tolgono, capisci che il silenzio è un deserto che ti costringe a guardarti dentro. Murphy, nella pelle di McCall, ci sbatte il muso. E forse è questa la cosa più Gonzo del film: non la trama, non la morale, ma il fatto che ti mette davanti a una domanda scomoda.
Se avessi solo mille parole prima di crepare, come le useresti?
Hank Cignatta
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