Addio a Robert Redford, uno degli ultimi giganti di Hollywood
Robert Redford è morto oggi, a 89 anni. E io scrivo con le mani che tremano, perché non è solo un necrologio: è l’atto finale di un film che sembrava infinito. Non importa dove ti trovi: quando ti dicono “Redford è morto”, ti passa davanti agli occhi un mondo intero. Lui non era un attore, era un concetto: la quintessenza dell’America che ci hanno venduto a colpi di pellicola e sogni troppo grandi per restare chiusi dentro uno schermo.
Il cowboy dorato che sapeva di polvere e verità
Lo ricordo come Sundance Kid, con Paul Newman a fianco, a ridere in faccia alle pallottole. Una risata che profumava di whisky e libertà. Redford non era la maschera di Hollywood: era il tizio che ti dava la sensazione che la vita fosse davvero un western eterno fatto di cavalcate e fughe infinite.

Redford Lo squalo della politica e il giornalismo come mitragliatrice
Poi arrivò I tre giorni del Condor. Redford, giornalista spia, l’uomo che legge libri e sopravvive. Non un eroe classico, ma uno che si chiede cosa cazzo stia succedendo al mondo. Ed è quello che facciamo anche noi, ogni giorno: cercare di capire chi tira le fila, chi decide chi vive e chi muore.

E come dimenticare Tutti gli uomini del Presidente? Non era un film ma un atto di fede per chiunque creda che scrivere possa cambiare il mondo. Anche in questi moderni tempi incasinati. Redford-Bob Woodward e Dustin Hoffman-Carl Bernstein come cowboy della verità, pronti a smontare il potere mattone dopo mattone. Da lì in poi, per chi fa questo mestiere, non ci sono state più scuse: o scrivevi per smascherare o eri solo un altro coglione al servizio del potere.

Robert Redford Il creatore di un tempio: il Sundance Film Festival
Redford non si accontentò di essere la star. Inventò un festival. Non un festival qualsiasi ma il Sundance, il laboratorio dove l’America nascosta, sporca ed indipendente poteva respirare. Senza Sundance, il cinema indie sarebbe rimasto una bestemmia nei caffè di New York. Lui prese i registi, gli diede un palco e disse: “Fate casino, vi copro io le spalle.” Un cowboy che invece di estrarre la pistola ti passava la cinepresa.
L’ultima cavalcata di un dio stanco
La notizia della sua morte ha la stessa consistenza di un colpo di fucile nel deserto: secca, inevitabile, dolorosa. Redford muore a 89 anni, ma in realtà aveva smesso di essere “umano” già da tempo. Era diventato un simbolo, una cartolina vivente di un’America che non esiste più. Non so se piangere o ridere. Forse bisogna alzare un bicchiere e brindare, come faceva lui nei film, con quello sguardo che diceva: “La vita è una fregatura, ma ne vale comunque la pena.”

Epilogo: la leggenda di Robert Redford non muore mai
Robert Redford non se ne va davvero. Resta nel nostro immaginario, nei poster ingialliti, nei DVD impolverati, nelle notti insonni in cui butti su La Stangata per ricordarti che la bellezza può anche fregarti, ma lo fa con stile.
Lui è ancora lì: a cavallo, al sole, a dirci che la libertà non è una parola, è un vizio che non puoi smettere di fumare.
Hank Cignatta
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