Princess Albertina, il mistero tra piacere e pericolo
E’ una sera storta: due gin tonic in corpo e la sensazione che la città ci stia guardando con occhi spenti. Lei, la Dani California del momento, butta lì la frase come se stesse chiedendo di cambiare playlist: “Voglio farmi un Princess Albertina”. Io sputo il ghiaccio dentro il mio bicchiere. Non era una battuta. E’ la miccia. La conosco appena, ci frequentiamo da poche settimane, ma quell’idea proietta la nostra conoscenza direttamente oltre la linea del decoro. Non più cena, non più cinema, ma sangue, metallo ed anarchia.

Anatomia di un nome nobile
Il Princess Albertina prende il nome dal suo fratello maschio, il Prince Albert. Se l’uomo vittoriano poteva rivendicare il suo trono di metallo perché una donna del ventunesimo secolo non poteva infilarsi un diamante nell’uretra? Ecco il senso: rovesciare secoli di silenzio e rendere il corpo un’arma sociale.

Princess Albertina, non solo un piercing
Il Princess Albertina non è moda, non è “body modification” da influencer che gioca a fare la dark lady su Instagram per acchiappare qualche mi piace o irretire i propri iscritti su OnlyFans. È una mina piazzata dentro al corpo, un ordigno che esplode ogni volta che urini, scopi o semplicemente respiri. È il contraltare femminile del Prince Albert maschile ma qui non si parla di membri in erezione e corone da re decaduti. Qui parliamo di un varco aperto nell’uretra femminile: un gioiello che trapassa la carne come un’idea sporca che non si può cancellare.

Il fatidico momento
Entriamo nello studio del piercer come due clandestini. L’aria sa di alcool denaturato, guanti in lattice e quel silenzio sospeso che precede l’impatto. Il piercer è un uomo tatuato fino agli occhi, con lo sguardo clinico di chi ha visto più genitali che tramonti. La Dani California si stende sul lettino mentre io le rimango accanto, cronista imbucato tra le sue cosce che ormai già conosco in ogni suo anfratto e la paura. Quando l’ago buca il suo corpo si contrae come un accento tra la sensualità e la paura. C’e sangue, sì, ma anche una risata strozzata che esplode subito dopo. E’ il suono di una donna che aveva appena rubato qualcosa agli dei.

La cicatrice invisibile
Una volta guarita ti resta dentro qualcosa che non vedrà mai la luce del sole, ma che cambia per sempre il modo in cui porti addosso il tuo sesso. È come una cicatrice clandestina, un tatuaggio invisibile, un ricordo della notte in cui hai deciso di bruciare i manuali di educazione sessuale e scrivere la tua autobiografia sul tuo corpo. Burroughs avrebbe parlato di “cut-up della carne”, un esperimento radicale tra dolore e desiderio. Il compianto Hunter S. Thompson diceva che “la libertà è qualcosa che si prende, non che ti regalano”. Vale anche per il sesso. Soprattutto per il sesso. Il Princess Albertina è questo.

Gonzo tra le gambe: il testimone scomodo
Io sono lì a fare da testimone scomodo con il mio taccuino mentale che si riempie di odori, sangue, risate isteriche e domande sul perché. Non è solo sesso, non è solo piacere. E’ cronaca. E’ politica. E’ un rito iniziatico che trasforma una ragazza comune in una guerrigliera della carne. Scrivere di piercing non rende giustizia: bisogna starci dentro, sentire il clangore dell’ago, guardare negli occhi chi decide di aprirsi come una ferita volontaria e di scrivere la sua storia con il suo corpo.

Conclusione: Princess Albertina, l’anello che brucia
La Dani California esce dallo studio camminando piano, con un sorriso che mescola dolore e orgoglio. Io la seguo più ubriaco di prima. Ma non di alcol bensì per aver assistito ad un pezzo di rivoluzione privata. Il Princess Albertina non è mai stato mainstream e mai lo sarà. È un gioiello invisibile che brucia come un manifesto tascabile. È anarchia infilata nell’uretra, cronaca sporca di un mondo che ancora pensa che certe cose non si possano raccontare.
Hank Cignatta
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