
Salary Men: i samurai senza spada del Giappone moderno
Sono le sette del mattino a Tokyo e già mi sento un intruso. I treni si riempiono come bare di metallo e corpi compressi in giacche scure. Un esercito di uomini con la cravatta serrata, la ventiquattrore come Katana sguainata e lo sguardo perso tra le pieghe di un destino scritto da qualcun altro. Sono i Salary Men giapponesi, pilastri dell’economia, simboli di dedizione, sacrificio e annullamento personale. Non sono persone, sono un concetto. Un brand. Una forza lavoro che fa del tempo la sua vera valuta: più ore al servizio della compagnia, meno vita per sé stessi.

Il Salary Man come ingranaggio economico
In Giappone non sei solo un dipendente: sei parte di una corporazione totalizzante. Lo stipendio non è semplicemente un salario, ma un contratto sociale con la nazione. I Salary Men alimentano il motore dell’economia nipponica con la loro stessa esistenza. Ore infinite d’ufficio, riunioni che potrebbero essere email, cene aziendali obbligatorie e l’arte millenaria del nomikai, dove l’alcol diventa strumento di networking e annullamento. L’economia giapponese regge anche grazie a questa dedizione cieca. È come se il Paese intero avesse deciso di fondersi con l’orologio: lavorare finché il corpo regge e quando non regge più, sparire.

Karōshi: la morte per troppo lavoro
La parola karōshi significa “morte da superlavoro”. Ed è reale, tangibile, quasi un marchio culturale. Infarti, suicidi, crolli mentali. Non è solo una leggenda urbana: è il lato oscuro del Salary Man, il prezzo nascosto di un modello che pretende tutto e restituisce poco. Il Giappone adora il Salary Man, ma lo consuma come un mozzicone di sigaretta. Bruciato fino al filtro, poi spento e sostituito con uno nuovo.

L’immagine sociale del Salary Man
Il Salary Man non è solo un lavoratore, è un’icona. La giacca scura, la camicia bianca, la cravatta neutra: uniforme di un esercito senza volto. Nella cultura pop, dall’anime al cinema, diventa una figura stereotipata: l’uomo che rincasa ubriaco, che crolla sui marciapiedi di Shinjuku, che dorme in piedi appoggiato a un palo. Ma dietro quella facciata c’è la vergogna sociale del fallimento. Perdere il lavoro o non rispettare gli standard della compagnia significa tradire non solo sé stessi ma anche la famiglia, il clan, il Paese. La pressione è costante, sottile e onnipresente.

Il Salary Man e la crisi della modernità
Il mito del Salary Man nasce nel dopoguerra, quando il Giappone si ricostruisce dalle macerie nucleari e diventa una potenza economica. Quelle giacche scure sono i mattoni invisibili del boom industriale. Ma oggi? Oggi il modello scricchiola. Le nuove generazioni guardano con sospetto quell’abisso fatto di lavoro infinito e assenza di vita privata. Cresce il fenomeno dei freeter (giovani che preferiscono lavori saltuari), dei NEET (chi rifiuta del tutto il lavoro) e delle donne che non accettano più di essere relegate al ruolo di “moglie del Salary Man”.

Eppure, nonostante tutto, l’immagine resiste. Tokyo non sarebbe Tokyo senza quell’orda di uomini in giacca e cravatta che invadono i treni come termiti ben addestrate.
Reportage Gonzo nel ventre della bestia
Seduto in un izakaya fumoso, con la pelle che sa di sake e nicotina, guardo un gruppo di Salary Men brindare. Ridono, ma sono risate forzate, come se ridere fosse l’ennesimo dovere da compiere prima di poter crollare a casa. Li osservo e capisco che non sono individui, sono lo specchio di un sistema. Un sistema che si regge su disciplina e obbedienza, ma che lentamente si sta sgretolando sotto il peso della modernità e del desiderio umano di respirare.

Conclusione: il fantasma in giacca e cravatta
ll Salary Man giapponese è il simbolo di un’epoca e di un modello economico che ha fatto grande il Giappone, ma anche la sua gabbia dorata. È un fantasma urbano, sempre presente ma invisibile, consumato dalle stesse fiamme che lo hanno reso indispensabile. In un mondo che corre verso il lavoro flessibile, la gig economy e la ricerca di equilibrio tra vita e carriera, il Salary Man rimane una figura tragica, un monumento vivente alla fedeltà aziendale. E mentre esco dall’izakaya, con la testa pesante e il cuore che batte al ritmo dei neon di Shibuya, so che domani, puntuali come il sole che sorge dietro al Fuji, quei fantasmi in giacca e cravatta torneranno a riempire i treni. Perché il Giappone non sa vivere senza di loro.
Hank Cignatta
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