
Sulla Strada, viaggio selvaggio nella follia americana
Introduzione: Una Premessa Necessaria
Nessun viaggio letterario sarà mai tanto sporco, tanto vero e tanto magnificamente delirante come quello narrato da Jack Kerouac in Sulla Strada. Se cercate ordine, linearità e saggezza da biscotto della fortuna questo articolo non fa decisamente per voi. Qui si parla di un’America fatta di benzina e whisky, amicizie sbagliate e sogni marci sotto un sole che brucia il cervello. Un po’ come quello di questa rovente estate 2025.

Jack Kerouac, Profeta di un Culto Impuro
Jack Kerouac era un bastardo geniale, l’anima ribelle di una generazione persa tra dopoguerra, jazz, anfetamine e l’illusione di un’America senza confini. Nel 1957, con On the Road, dà fuoco alle pagine della letteratura statunitense. In Italia lo conosciamo come Sulla Strada, un libro che, da allora, è diventato la Bibbia dei perdenti, dei sognatori e degli eterni adolescenti. Kerouac non scrive: vomita parole, idee, visioni. Una prosa spontanea, febbrile, ritmata come un assolo di Charlie Parker dopo tre whisky. Ecco la sua grandezza. Ecco la sua maledizione.

Viaggi senza fine, meta ignota
Sal Paradise, alter ego di Kerouac, vaga per l’America affamato di vita, trascinato dal carisma tossico dell’amico Dean Moriarty, ispirato alla figura reale di Neal Cassady. Dean è l’incarnazione perfetta della beatitudine irresponsabile: vive intensamente, sfascia auto, amori e amicizie con una facilità disarmante. È un Cristo delirante, l’apostolo di un caos da venerare e temere. Sal, come noi, segue Dean, rapito dal sogno impossibile di trovare qualcosa, o forse niente, in fondo alla strada.

A differenza di tanti noiosi saggi di critica letteraria, il vero fascino di Sulla Strada è tutto qui: non c’è una meta. La strada stessa è la meta, un luogo d’incontro e smarrimento. E noi lettori, che ci sentiamo intrappolati nella prevedibilità quotidiana, leggendo Kerouac finiamo per sognare disperatamente di essere lì, a vagabondare senza scopo, senza speranza e soprattutto senza certezze.
Quel maledetto rotolo di carta
Se dovessimo racchiudere il delirio creativo di Kerouac in un’immagine, sarebbe quel rotolo di carta lungo 36 metri su cui scrisse il romanzo. Lo immaginate? Il pazzo scrittore, immerso in fiumi di caffeina e benzedrina, a digitare freneticamente sulla macchina da scrivere, evitando persino le pause per cambiare foglio. Una sola frase, un unico respiro letterario, come una jam session jazzistica che non può, non deve fermarsi mai.

Kerouac non voleva solo raccontare una storia: voleva vivere la scrittura come atto fisico, totale, sfrontato. Questo rotolo divenne il simbolo della libertà assoluta, di una scrittura priva di catene, freni, giudizi. Un autentico pugno nello stomaco per gli accademici, i moralisti e gli intellettuali benpensanti.
Libertà, follia e perdizione
«Le uniche persone che esistono per me sono i pazzi», scrive Kerouac. Il suo libro è pieno di pazzi meravigliosi: hipster, vagabondi, poeti strafatti, prostitute filosofe e musicisti derelitti. L’America che racconta è quella lontana dalle luci di Broadway, dai cocktail di Manhattan e dalle villette perfette con prato curato. È l’America del jazz notturno, degli autobus malridotti, dei motel luridi e dei sogni spezzati in autostrada.

Kerouac ci insegna che la libertà ha sempre un prezzo: follia e perdizione sono le monete da pagare alla cassa della vita vera. È una verità scomoda, che molti fingono di non vedere. Leggendo Sulla Strada capisci una cosa semplice e tremenda: se non hai mai perso tutto almeno una volta, non hai mai vissuto davvero.
Il grande inganno del sogno americano
E poi, naturalmente, c’è lui: il mito, il sogno americano, quel feticcio luccicante che Kerouac prima ama, poi odia, e infine distrugge con il suo vagare. La beat generation, raccontata attraverso questo romanzo, non cerca di migliorare il mondo; vuole semplicemente scappare dalla menzogna di un Paese che promette tutto ma non mantiene nulla.

Kerouac e compagni sono profeti di un’America smascherata, un’America che dietro ai sorrisi rassicuranti e al benessere economico nasconde la solitudine, la paranoia, il vuoto. Non c’è redenzione alla fine di questo viaggio: c’è solo l’amara consapevolezza che la libertà assoluta è, in fondo, solo un’altra forma di prigione.
Alla fine della strada
Chiudo il libro e torno in strada. Mi guardo intorno. Non c’è Dean Moriarty a prendermi per mano, non c’è una Cadillac scassata ad aspettarmi sotto un sole implacabile. Ma sento, dentro, quell’urgenza, quel battito accelerato che Kerouac ha saputo regalarmi. La sua è un’America perduta, irripetibile. Eppure, ogni volta che qualcuno apre Sulla Strada, quella folle danza tra libertà e disperazione riparte, proprio come quel rotolo di carta infinito. Una strada senza fine, e noi, viaggiatori eterni, a vagare senza meta. Sempre in bilico tra paradiso e inferno. Jack Kerouac è morto da decenni ma la sua voce echeggia ancora nelle notti più selvagge, quando la vita sembra solo un viaggio ininterrotto e inutile, ma incredibilmente, maledettamente irresistibile.
Hank Cignatta
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