
Scarface, la leggenda criminale di Tony Montana
Interno. Sera. Il mio appartamento. Faccio ballare l’occhio sul mio orologio, il quale mi informa rapidamente che la mezzanotte è ormai abbondantemente superata. Dalla finestra giunge il suono dello scroscio della pioggia che bagna questa grigia giungla urbana quale è Nevrotic Town, presentando almeno un terzo diverso clima nell’arco di poche ore. In tv passano distrattamente alcune pubblicità che lasciano rapidamente il posto alla messa in onda della versione di Scarface di Brian De Palma con il leggendario Al Pacino. La mia Noël si mette comoda, io seguo il suo esempio e ci tuffiamo nel lato cinematografico della Miami degli anni Ottanta.

Benvenuti a Miami, bastardi
Non c’è modo elegante di cominciare questo articolo. Scarface, anno di grazia 1983, non ti chiede permesso: ti prende per il bavero, ti scaraventa sul cemento bollente di South Beach e ti dice: “Questa è l’America. Fattela bastare.” Brian De Palma apre una ferita cinematografica. E Al Pacino, con il suo Tony Montana, ci butta dentro sale, sangue e cocaina.

Siamo nei primi anni Ottanta. L’America ha l’inflazione, Reagan, MTV e lo spettro della Guerra Fredda che ancora morde. Ma a Miami c’è un’altra guerra che pulsa sotto la superficie: quella della droga. Gli esuli cubani arrivano a ondate, alcuni con sogni, altri con Kalashnikov nel bagaglio a mano. E lì, tra la sabbia e la miseria, sboccia l’epopea criminale più barocca, grottesca e potente mai descritta su pellicola.
Scarface, ovvero Il volto che ha cambiato il crimine cinematografico
Al Pacino non si limita ad interpretare Tony Montana. Lo diventa. Occhi da predatore, cicatrice sulla guancia e un accento cubano che sa di caricatura e verità in egual misura. È teatrale? Sì. Eccessivo? Assolutamente. Ma provate voi a raccontare l’ascesa di un profugo che diventa re della cocaina senza sporcarvi le mani di melodramma.

Tony non è un personaggio. È un virus. Si insinua nella cultura pop, nei poster da college, nei videoclip rap degli anni Novanta. “Say hello to my little friend!” non è una battuta: è un rito. Uno sparo nella coscienza collettiva.
Il Synth del Sogno Americano: La Colonna Sonora di Giorgio Moroder in Scarface
Nel delirio cocainomane di Scarface, tra sparatorie a rallentatore e monologhi allucinati sul potere e la gloria, c’è un battito costante, pulsante, elettronico: è Giorgio Moroder che suona nel cervello come una linea di sintetizzatore direttamente in vena. La sua colonna sonora è un personaggio a sé stante, un’eco sintetico del sogno americano distorto di Tony Montana tanto importante quanto lui.

Quei beat freddi, alieni, sembrano usciti da un incubo disco, perfetti per raccontare l’ascesa e la caduta di un uomo che voleva tutto: The World is Yours, sì, ma con un Moog. Senza Moroder, Scarface sarebbe stato incompleto, solamente un altro gangster movie. Grazie anche a lui è un’odissea psichedelica nel cuore oscuro degli anni Ottanta. La musica diventa droga essa stessa.
Coca, collane d’oro e Kalashnikov: il barocco criminale di Brian De Palma
De Palma non gira mai in silenzio. Il suo cinema è un urlo, un orgasmo visivo fatto di movimenti di macchina sinuosi, split-screen e ralenty che gridano anni ’80 più di una giacca a vento fluorescente. Scarface è un’orgia di eccessi: le montagne di cocaina, le vasche da bagno grandi come piscine e gli abiti sgargianti che farebbero impallidire Liberace.

Ma sotto la superficie kitsch c’è una tragedia greca travestita da videoclip. Tony Montana è un Edipo cocainomane che si scopa il destino e poi ci muore sopra. De Palma lo sa, e ce lo mostra come un affresco rinascimentale dipinto con sangue e benzina.
Scarface e L’America secondo Tony Montana
Ecco dove Scarface si fa mitologia. Non è un film sulla droga. È un film sull’America. Quella che promette tutto e poi ti scarica nel cesso se sbagli passo. Tony vuole tutto. È la Bibbia del capitalismo ultraviolento, letta ad alta voce con un M16 in mano.
Ogni scena è un grido disperato che grida di essere visto, riconosciuto, rispettato. Tony è l’anti-eroe perfetto: fa schifo, ma non puoi distogliere lo sguardo. Vuole l’America, ma l’unico passaporto che ha è la violenza. E allora la usa. Con gusto. Scarface in fondo non è un film d’azione ma di morale. Nuda e crudissima.
Il doppiaggio leggendario: Ferruccio Amendola e l’immortalità di Tony Montana
Nel panorama del doppiaggio italiano, pochi attori vocali hanno avuto l’impatto culturale di Ferruccio Amendola, in particolare nel suo lavoro su Al Pacino in Scarface. La voce roca, intensa e carismatica di Amendola ha contribuito in modo determinante a scolpire nell’immaginario collettivo italiano la figura di Tony Montana, trasformandolo in un’icona intramontabile del cinema criminale.

Non si è trattato solo di una traduzione linguistica, ma di una vera e propria interpretazione attoriale che ha dato nuova vita al personaggio. In Italia, la leggenda di Scarface non può essere raccontata senza menzionare l’importanza di questo doppiaggio: Amendola ha amplificato l’aura di potenza, disperazione e ambizione che Al Pacino ha portato sullo schermo, lasciando un’impronta indelebile nella storia del cinema e nella cultura pop nazionale.
Da flop a culto: l’incredibile parabola postuma di Scarface
Quando uscì, Scarface venne massacrato. Troppo violento, troppo volgare, troppo tutto. Ma, come il suo protagonista, non chiese scusa a nessuno. Con il tempo divenne culto. I rapper lo adorarono. I giovani lo idolatrarono. Hollywood lo temette.
Perché Scarface non è solo un film. È un’icona. Un totem blasfemo. La statua del commiato definitivo tra moralità e spettacolo. E ogni volta che qualcuno si mette un completo bianco e sogna idealmente di conquistare il mondo a colpi di mitra, Tony Montana risorge. Cinematograficamente parlando.
Conclusione: puro succo concentrato di anni Otanta
Scarface è lo specchio rotto del sogno americano. Lo stesso Sogno Americano andato in frantumi raccontato un decennio prima da Hunter Thompson in Paura e disgusto a Las Vegas. E in ogni pezzo riflette qualcosa di noi: l’ambizione, la rabbia, l’avidità. Guardarlo oggi è come sniffare storia pura: una linea bianca tirata lunga tra il cinema, la cultura pop e l’America profonda. Non c’è catarsi, non c’è redenzione. Solo un uomo che urla, spara e cade. In fondo, lo sapevamo tutti che sarebbe finita così. Ma dannazione, che viaggio.
Hank Cignatta
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