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    Thundercat, una sana ventata di puro funk moderno

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    Data stellare 25 dicembre 2022. E’ arrivato quell’inutile periodo dell’anno dove le insegne natalizie addobbano le città, desiderose di ritornare a quella normalità che tanto andiamo decantando ma che non abbiamo mai veramente raggiunto. Dalla finestra del palazzo di fronte al mio, rigorosamente senza tende, quel maledetto albero di natale si dà un gran daffare per illuminare la mia stanza mentre sto per chiudere le imposte. Se qualcuno mi augura ancora buone feste mi armo di benzina da Zippo e faccio un falò di ogni cosa strettamente legata al natale. Mi accorgo di aver bisogno di un drink per poter superare la stucchevole follia del finto perbenismo natalizio: mi reco quindi al supermercato per rifornirmi di Coca Cola da innaffiare con del buon whiskey. L’esercizio commerciale è pieno di individui che, come in preda ad uno strano friccicore, rimbalzano maldestramente da una corsia all’altra creando lunghe code alle casse. Il tutto fottendosene allegramente di rispettare la più minima regola riguardo il distanziamento sociale. Lo scaffale delle bibite è vuoto quanto la mia gioia nel vedere davanti all’ingresso e all’uscita del supermercato un povero disoccupato che per pochi spicci è vestito da Babbo Natale, dispensando credibili auguri di serene feste e felice anno nuovo. L’unica opzione disponibile risulta essere una confezione da quattro lattine da 330 ml di Coca Cola Light Taste, un tempo meglio conosciuta nel Bel paese come Coca Cola Light e commercializzata nel mondo come Diet Coke. Lo scintillio dell’alluminio delle lattine riflette il mio desiderio di gustoso e puerile alcolismo con un tocco di gusto. Questa frase me la rivendo per future collaborazioni pubblicitarie, non si sa mai. Afferro le lattine, bestemmio in coda alla cassa, pago e vado a casa curioso di assaggiare una versione della Coca Cola che non sono avvezzo a sgargarozzare.

    Una lattina di Coca Cola Light Taste nella sua attuale grafica, in vendita in Italia

    La mia insonnia bussa puntuale alle porte della mia mente disturbata e mentre sono intento a ruttare come un dinosauro sorseggiando la mia Coca Cola Light prima di annaffiarla con del buon whiskey, faccio un consueto giro di ricognizione su Youtube per cercare vecchie pubblicità inerenti alla Diet Coke. Spaccati di edonismo Reaganiano si palesano sullo schermo della mia televisione, con alcuni spot aventi per protagonisti celebrità del calibro di Whitney Houston, Chuck Berry, “Weird Al” Yankovic, Michael Keaton nei panni del Batman gotico di Tim Burton, Harrison Ford nei panni di Indiana Jones, “Marvelous” Marvin Hagler e tanti altri. Ma anche spot italiani di discreto successo, come quello delle donne in ufficio in trepidante attesa della pausa delle undici e trenta del mattino dell’aitante operaio che, vinto dal caldo e dalla fatica, si toglie la maglietta per dissetarsi e per far accaldare le signore che invidiano disperatamente quella lattina. Il jingle Just For The Taste Of It di marcata fatture anni Ottanta- Novanta inizia ad incollarsi nelle mie sinapsi ma il whiskey mi aiuta a rimanere abbastanza lucido da ricordarmi di ruttare con intervalli regolari ed evitare di cantarlo il giorno successivo come uno zombie consumato dal consumismo tra le corsie del supermercato.

    Fin qui tutto bene, storia di ordinaria follia insonne che mi porta a fare strani viaggi audiovisivi nel tempo per mezzo del Tubo. Tutto bene finché non mi imbatto nello spot di quest’anno della Diet Coke: una pubblicità caratterizzata da un forte richiamo agli anni Ottanta, compreso il suo jingle. Una canzoncina che riprende proprio quel just for the taste of it ma declinato in una favolosa chiave funk moderna. Rilancio la visione della pubblicità una, due, tre volte finché non spacco il tasto play e smetto di contarle. Eccolo li di nuovo, quel rumore. Mi si apre un mondo. Devo saperne di più. Una rapida ricerca mi permette di risalire all’autore di quel brano della durata di un minuto e venti secondi di puro godimento musicale. L’artista in questione si chiama Thundercat, al secolo Stephen Lee Bruner, cantante e bassista statunitense. Nasce in una famiglia di musicisti ed inizia ad interessarsi al basso e a suonarlo molto presto. All’età di quindici anni ottiene un discreto successo con la band dei No Curfew. Suo fratello Ronald Jr., batterista, in quel periodo milita nella punk metal band Suicidal Tendencies e lo chiama a sostituire il bassista Josh Paul. Thundercat rimarrà nella band dal 2002 al 2011, anno in cui pubblicherà il suo album di debutto da solista, The Golden Age Of Apocalypse, un vero e proprio viaggio in sonorità electro funk.

    Thundercat con il suo basso Ibanez TCB1006 ALB

    Per i maniaci dei generi musicali Thundercat è un grandissimo virtuoso del basso, caratterizzato da una grandissima capacità di fondere con sapienza il funk con richiami di musica elettronica con una sublime spolverata di acid jazz. Per chi invece riesce ad emozionarsi con la musica, indipendentemente dall’etichetta che gli si possa appiccicare sopra è un artista da scoprire, capace di stupire e di portare il funk verso una nuova ed interessante fase creativa. Quando ci si trova di fronte ad un talento del genere non rimane che rimanere affascinati dal su inconfondibile stile. E, come sempre, ascoltate per credere.

    Hank Cignatta

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    Sono la mente insana alla base di Bad Literature Inc. Giornalista pubblicista, Gonzo nell’animo, speaker radiofonico, peccatore professionista, casinista come pochi. Infesto il web con i miei articoli che sono dei punti di vista ( e in quanto tali condivisibili o meno) e ho una particolare predisposizione a dileggiare la normalità. Se volete saperne di più su di me e su Bad Literature Inc. leggete i miei articoli. Ma poi non dite che non siete stati avvertiti.

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