Hollywood, l’industria dei sogni che non emoziona più
Da qualche anno a questa parte non si fa altro che parlare di crisi. C’è la crisi economica, dalla quale pare non si possa (o non si voglia) uscire. E’ c’è anche una grave crisi di valori che ci sta portando lentamente troppo al largo rispetto a quelli che sono i principi fondanti della nostra civiltà. Pronti a modificarla per non turbare l’altrui sensibilità, pronti a mascherare i nostri usi e costumi per non urtare religioni e modi di pensare. E se c’è una profonda crisi di valori, c’è anche crisi in quel mondo dorato che lavora per poterci far sognare. Ecco quindi che anche l’industria cinematografica affoga nella stagnazione di idee portata dall’ultimo decennio. Negli anni dell’avvento di Internet 2.0 che hanno permesso a chiunque di trovare i propri quindici minuti sotto i riflettori di Warholliana memoria abbiamo pensato di dover incanalare buone idee, originalità e talento in un qualcosa che deve passare necessariamente attraverso la gigantesca lente del voyeurismo spasmodico. Allora l’Homo Sapiens Sapiens partorisce l’idea di talent show, dove chiunque può presentarsi su un palco davanti ad un pubblico e tre giudici, i quali hanno il compito (o la tremenda presunzione) di decidere chi ha il Fattore X. Questo benedetto Fattore X sembra una molecola sintetizzata da qualche malattia infettiva e usata per cercare di crearne un vaccino contro la pandemia. Mentre è invece proprio l’opposto. Attori che non sanno recitare. Cantanti che non ci mettono il cuore e che sono manovrati come pupazzi da etichette discografiche che infilano loro un pugno e un gomito lungo le vie più oscure dei loro orifizi anali. Le generazioni cambiano, così come le loro divinità pagane.
Loro piangono, si strappano i capelli e gridano il nome del divo di turno. E i genitori pagano. E questa crisi si è pian piano diffusa come una pandemia anche in altri settori creativi. E’ così non riusciamo più a trovare un vincitore di una qualsiasi edizione del festival di Sanremo che abbia composto una canzone che si ricordi nel tempo. Quale è stata la canzone vincitrice dell’edizione del 2010? O dell’anno passato? E come fa? Se siete disorientati nel cercare di trovare delle risposte a queste domande, state assistendo al massimo periodo di questa stagnazione di idee. Anche Hollywood, l’industria dei sogni per eccellenza, da alcuni anni non è più in grado di emozionarci. Ormai la guerra è tra chi realizza il film più costoso con il più grande numero di effetti speciali. E questo ha portato lo spettatore medio a non emozionarsi più tanto per i contenuti della trama. O per l’interpretazione di un determinato attore. Questo ha comportato negli anni a scegliere un determinato film piuttosto che un altro per la quantità e la spettacolarità degli effetti visivi presenti all’interno di una pellicola. Ecco quindi che Hollywood si ritrova a sfornare film che hanno successo al botteghino per il tempo in cui sono in prima visione nelle sale ma che poi vengono ben presto gettate nel mercato dell’home video. E poi facilmente reperibili nell’internet che non ha più confini e che permette di fare tutto. Certo. Per spezzare una lancia a favore di chi lavora nell’industria del cinema bisogna ammettere che non è facile portare lo spettatore in sala e tenerlo incollato pedissequamente con il culo sulla poltrona per tutta la durata del film senza che si distragga o che si perda i punti cardini di una trama. Ed è proprio questo uno dei problemi principali. L’originalità della trama.
Seguito a ruota dall’originalità stessa che sta alla base del progetto. Qualcosa di nuovo, in grado di ottenere successo e di essere ricordato negli anni a venire. Un qualcosa a cui generazioni di cinefili possano guardare con ammirazione. Un qualcosa che possa stare nell’Olimpo del mondo della cellulosa per il resto dei secoli a venire. D’improvviso Hollywood si ritrova vulnerabile e a corto di idee. E quindi sguinzaglia i suoi registi senza idee tra gli scaffali delle librerie, in cerca di qualche input vincente in grado di di far svoltare la loro carriera per non tornare a filmare i matrimoni di qualche coppia con un seguito esagerato di parenti in una assolata domenica di agosto. E se neanche saccheggiare la parte più triste della letteratura moderna traendone film dai dubbi contenuti basta per cercare di tornare a far decollare la macchina dei sogni ai fasti di un tempo ecco che a qualcuno si illumina la lampadina con quella che ritiene essere l’idea giusta. Perché non creare dei remake di film che hanno fatto la storia del cinema? Ecco che le sale cinematografiche si riempiono di cloni traslati in tempi recenti di storie che negli anni hanno fatto breccia nei nostri cuori e nel nostro immaginario collettivo. Il caso più recente riguarda il remake di Ghostbusters e che nel corso delle prossime settimane si appresterà a fare il suo debutto nelle sale italiane. Partendo dal presupposto che il “reboot” ( ah, quanto ci piace riempirci gli occhi e la bocca con parole più grandi di noi!) è stato preceduto da uno dei trailer con il numero più alto di pollici versi nella storia di YouTube, forse sarebbe stato da considerare come un campanello di allarme nei confronti di un prodotto che non avrebbe bissato il successo della pellicola omonima del 1984.
E il problema è anche nel cast. Nella versione portata nell’anno del Signore 2016 i personaggi principali della trama sono interpretati tutti da attrici. Il che non è un problema di sessismo, anzi. Mentre nel film del 1984 il cast era composto da attori comici provenienti dalla popolare trasmissione televisiva americana Saturday Night Live le attrici nella versione dei giorni nostri sono (quasi) tutte pressoché sconosciute. L’intento di Ivan Reitman, regista del film originale, era quello di portare alcuni attori comici e la loro comicità in una nuova dimensione. Situazioni surreali e dissacranti, certo. Alle prese però con una città intera che deve far fronte con l’allarmante problema di alcuni casi di fenomeni paranormali. E il tutto è diventato epico. Dall’interpretazione dei personaggi, al loro abbigliamento passando per la colonna sonora, un classico senza tempo a distanza di trentadue anni dall’uscita del film nelle sale. E se questa versione può essere buona per passare qualche ora in spensieratezza o per calmare orde di bambini che tra uno smartphone e un tablet non riescono più a trovare la dimensione della loro innocente fanciullezza, di sicuro non lo sarà per il mondo della cinematografia e dell’industria dei sogni di Hollywood. Un altro lavoro che ben presto troverà il suo spazio nei scaffali polverosi degli appassionati di cinema che compreranno il film in formato dvd come allegato di qualche rivista. Siamo veramente arrivati ad una aridità di idee tale dove l’originalità è rimasto l’unico valore da preservare a costo della vita? Dobbiamo veramente copiare quello che esiste già e che ha avuto un successo storico per cercare di riempire quei vuoti che le nuove generazioni vedono fugacemente dallo schermo luminoso di un qualche dispositivo elettronico perché intenti a guardare svogliatamente il loro presente che corre troppo veloce? C’è forse bisogno della lenta creatività del passato per cercare di focalizzare meglio ciò che ci passa davanti ad una velocità troppo elevata per poter essere compresa. E Hollywood, così come ogni campo della nostra vita quotidiana, suona l’allarme. Abbiamo perso il coraggio di essere originali e creativi. Perché conformarsi è di gran lunga più semplice che cercare di incidere una tacca nell’universo del corso della storia. O molto più semplicemente abbiamo perso l’abitudine di chiudere gli occhi e sognare, perdendo di fatto l’unica cosa in grado di renderci veramente liberi e unici.
Hank Cignatta
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