Cocktail, ovvero quando il bancone era Hollywood

Cocktail, ovvero quando il bancone era Hollywood

Cocktail – quando l’edonismo degli anni Ottanta diventa un drink servito da Tom Cruise

C’è qualcosa di profondamente sbagliato nell’accendere la televisione dopo mezzanotte. Lo sapeva bene Hunter S. Thompson, e lo so anch’io, che sono seduto davanti a uno schermo che emana la luce bianca di un dopo sbornia digitale. In cerca di un diversivo, di un colpo di adrenalina visiva capace di svegliarmi dal torpore, mi imbatto in Cocktail , film del 1988 diretto da Roger Donaldson.

Tom Cruise nei panni del giovane barista Brian Flanagan

Un titolo che sembra una promessa da barista e un avvertimento morale allo stesso tempo. Tom Cruise fa il suo ingresso come un apostolo del sogno americano, shakerando bicchieri e illusioni, trasformando l’alcol in spettacolo. Ed è lì che capisco che non si tratta solo di un film. È una dichiarazione d’intenti di un’epoca: l’edonismo Reaganiano lucido, il sesso patinato, il culto dell’immagine e la discesa agli inferi di chi crede che il carisma basti a sopravvivere nel mare acido della competizione.

Ronald Reagan e sua moglie Nancy

Cocktail: Tom Cruise e l’arte di shakerare il vuoto

Cocktail è un film costruito come un drink da spiaggia: dolce, colorato, pericolosamente ingannevole. Cruise interpreta Brian Flanagan, ex militare che torna a New York con la convinzione di poter conquistare il mondo con un sorriso e una buona parlantina. Al suo fianco, Doug Coughlin (interpretato da Bryan Brown), una sorta di filosofo da bancone che predica cinismo e disillusione come fossero dogmi.

Doug non serve solo alcol: serve idee, tristi aforismi, un manuale pratico per sopravvivere nel capitalismo con un bicchiere sempre pieno.

La magia del film non è nella trama (anzi, se dovessimo analizzare solo quella si piega su se stessa come un cocktail mal miscelato) ma nel modo in cui l’immagine cattura il mito della realizzazione personale travestito da sogno notturno.
Cruise balla dietro al bancone come se ogni bottiglia fosse una pistola carica, come se lo shaker fosse un’arma di seduzione di massa. È il giovane yuppie dell’era Reagan con il cuore alcolico e le ambizioni brucianti, un simbolo che oggi farebbe impazzire TikTok e Wall Street allo stesso tempo.

Cocktail e L’America vista da un bancone

Cocktail è il ritratto lucido e disonesto dell’America degli anni Ottanta. Un Paese ubriaco di successo e apparizioni televisive, che ha sostituito la sostanza con lo spettacolo. L’alcol diventa il simbolo perfetto: lucido, effimero, anestetico. Ogni drink preparato da Flanagan è una piccola cerimonia di autoinganno, una performance che nasconde la verità sotto una colata di blu curaçao e ghiaccio tritato. Il film ha lo stesso effetto di un gin tonic a stomaco vuoto: all’inizio ti fa sentire brillante, poi ti toglie l’equilibrio.

È un viaggio in cui l’unico modo per restare lucidi è ubriacarsi insieme al protagonista, lasciandosi trasportare da quella miscela tossica di ambizione e romanticismo. L’America che osserva Brian non è quella della libertà, ma quella delle apparenze. Ogni successo ha il sapore di un drink servito troppo freddo: perfetto, ma senza anima.

L’oceano, l’amore e la caduta

Quando Brian incontra Jordan (Elisabeth Shue), la parabola cambia direzione. La spiaggia giamaicana, i tramonti saturi e i mojito come anestetico emozionale: qui Cocktail diventa quasi una fiaba decadente, un romanzo sentimentale travestito da spot per resort tropicali. Ma dietro la facciata da cartolina c’è il crollo. Il ritorno alla realtà, la disillusione di chi ha scambiato il bancone del bar per un palcoscenico eterno. Il successo, come il rum, evapora. L’amore, invece, resta — anche se si sporca di compromessi e di scelte difficili.

Un film odiato dalla critica ma amato dal pubblico

Quando uscì nel 1988, Cocktail fu massacrato dalla critica. Il famoso critico cinematografico Roger Ebert lo definì “un incubo colorato di luci al neon” e non aveva tutti i torti. Ma il pubblico se ne infischiò: il film incassò oltre 170 milioni di dollari e divenne un fenomeno culturale. La colonna sonora (Kokomo dei Beach Boys in testa) divenne un inno generazionale, un invito a evadere dal grigiore urbano verso l’illusione esotica di un mondo migliore. Oggi Cocktail è un feticcio di quell’epoca per chi, come il povero stronzo che vi scrive, è appassionato di quel decennio. Un film che racconta la superficie ma proprio per questo resta vero: è il ritratto di un mondo che ballava sul bordo del baratro convinto che fosse una pista da ballo.

Cocktail come esperienza gonzo

Guardare Cocktail oggi è come partecipare a un esperimento sociologico con un bicchiere in mano. È un film che non si limita a raccontare un’epoca, ma la distilla, la serve, la fa ingoiare fino all’ultima goccia. Tom Cruise è la rappresentazione vivente del mito americano shakerato nel vetro dell’illusione. E mentre le luci al neon riflettono sulle bottiglie, mi rendo conto che Hunter Thompson avrebbe amato quest’assurdità: un mondo dove il barista è una rockstar, dove il successo è misurato in shot e dove ogni notte può trasformarsi in un’orgia di colori, sudore e alcol.

Anche se ogni tanto mi diverto a viaggiare nel tempo, non mi somiglia per niente. Vero?

E’ un documento perfetto: un manuale visivo sull’avidità estetica degli anni Ottanta. E se lo guardi nel modo giusto, magari con in mano il tuo drink preferito e un po’ di cinismo, diventa una lezione di vita servita con ghiaccio e rimorso.

Conclusione: l’America nello shaker

Alla fine, spengo la televisione e resto lì, seduto, con la testa piena di luci al neon e frasi da barista-filosofo. Mi rendo conto che Cocktail non parla di alcol, ma di sopravvivenza. Di illusioni vendute come felicità, di sogni scambiati per drink del giorno. È un film sull’America che si specchia nel proprio bicchiere e non riconosce più la propria faccia.

Hank Cignatta

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Sono la mente insana alla base di Bad Literature Inc. Giornalista pubblicista, Gonzo nell’animo, speaker radiofonico, peccatore professionista, casinista come pochi. Infesto il web con i miei articoli che sono dei punti di vista ( e in quanto tali condivisibili o meno) e ho una particolare predisposizione a dileggiare la normalità. Se volete saperne di più su di me e su Bad Literature Inc. leggete i miei articoli. Ma poi non dite che non siete stati avvertiti.

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