Il duro del Road house: risse, whiskey e redenzione

Il duro del Road house: risse, whiskey e redenzione

Ci sono film che si limitano a intrattenere e ci sono film che ti stendono come un diretto allo stomaco. Il duro del Road House (1989) appartiene a questa seconda categoria: un’orgia di calci rotanti, coltelli estratti al momento giusto e camicie sudate aperte fino all’ombelico. È un western travestito da film d’azione anni Ottanta, solo che al posto dei cavalli ci sono pick-up scassati e al posto del saloon c’è il Double Deuce, un bar che sembra l’inferno in franchising.

Gli esterni del Double Deuce, uno dei bar più movimentati della storia del cinema

Patrick Swayze non si limita ad interpretare Dalton, il buttafuori zen: lo incarna, lo divora, lo eleva a sciamano delle risse da bar. Un uomo che legge filosofia, si muove come un ballerino classico e ti apre la gola in un lampo, con la stessa calma con cui un barista versa una birra.

Patrick Swayze nei panni di Dalton

Dalton: il buttafuori filosofo che nessuno dimentica

Dalton è l’antieroe perfetto per l’America post-Reagan: un uomo che cerca l’equilibrio interiore in un mondo che va a pezzi tra tavoli spaccati e neon rotti. È un samurai metropolitano che combatte non solo contro i bulli del Double Deuce ma contro la corruzione che ha inghiottito la cittadina intera.

C’è qualcosa di mistico nel modo in cui Swayze lo interpreta: un buttafuori che cita Kierkegaard, ma che sa perfettamente come spaccarti il naso senza rovinarsi il mullet. Non è solo un personaggio: è un mito americano, l’ennesima reincarnazione del cowboy solitario che arriva, sistema la situazione e se ne va lasciando polvere, sangue e desiderio irrisolto.

Road House come rito di passaggio anni Ottanta

Guardare Il duro del Road House significa entrare in un tempio dove le regole sono semplici: si beve forte, si combatte duro e si ama ancora più duro. Ogni rissa del film è coreografata come un balletto di violenza, un rodeo testosteronico condito da battute fulminanti. Ed è una cosa che manca, in un mondo che vuole tutti perfetti ma che non sa dove andare di preciso.

Il Double Deuce non è solo un bar, è un organismo vivente: le pareti grondano di bottiglie spaccate, i tavoli tremano al ritmo dei pugni e i clienti sembrano attaccabrighe usciti da qualche episodio di Ken il guerriero. È l’America sporca e cattiva, quella che non trovi nei manuali di storia ma nelle cicatrici dei suoi uomini. Vi siete emozionati leggendo questa frase eh?

Patrick Swayze: l’icona immortale

Swayze non era solo un attore: era un corpo che trasudava mito. Nel 1989 era già l’idolo di Dirty Dancing, il ballerino che faceva impazzire le donne. Ma qui diventa altro: un guerriero con lo sguardo dolce e le mani letali. Un uomo che può ammazzare un nemico a mani nude e la scena dopo salvarti la vita con un sorriso.

Swayze era il ponte perfetto tra sensibilità e brutalità, e Road House lo ha reso leggenda. Non c’è da stupirsi se oggi il film è diventato un cult underground, idolatrato da fan che lo guardano come si guardano i documenti di un culto segreto.

La locandina italiana del film

Ben Gazzara: il cattivo elegante e spietato

Ma ogni eroe ha bisogno di un cattivo all’altezza, e qui entra in scena Ben Gazzara. Nel ruolo di Brad Wesley, il magnate corrotto che tiene in pugno la cittadina con il pugno di ferro e il sorriso sornione, Gazzara costruisce un villain da manuale. È elegante, distinto, quasi affabile. E proprio per questo ancora più terrificante. Non ha bisogno di urlare o di sporcarsi troppo le mani: la sua malvagità è sottile, si insinua come il veleno di un serpente. È sua l’ombra che incombe sul cammino zen di Dalton, il vero motore del conflitto. Un cattivo che non è solo un ostacolo ma un simbolo: la personificazione del potere corrotto che si crede intoccabile, pronto a essere abbattuto dalla furia liberatrice del protagonista.

Il mitico Ben Gazzara nel ruolo di Brad Wesley. Sullo sfondo, Patrick Swayze

Il remake con Jake Gyllenhaal: mito rinnovato o bestemmia moderna?

Nel 2024 Amazon Prime ha deciso di far rivivere il mito con un remake diretto da Doug Liman, mettendo Jake Gyllenhaal nei panni di un nuovo Dalton. Niente mullet, niente filosofia zen, ma un ex combattente UFC che porta la violenza del ring dentro il bar più scassato della Florida. È un aggiornamento che divide: da una parte la nostalgia per l’iconico Swayze, dall’altra la curiosità di vedere un attore camaleontico come Gyllenhaal buttarsi nel caos di tavoli spaccati e ossa rotte.
Il risultato? Una Road House pompata, muscolare, che tenta di mescolare la brutalità moderna con l’aura del mito originale. Ma il fantasma di Swayze aleggia ovunque, a ricordarci che certi film non si rifanno: si venerano.

Road House oggi: il mito che resiste

Oggi, nell’epoca degli streaming e dei remake patinati, Il duro del Road House resiste come un pugno chiuso al cuore della cultura pop. È il film che puoi rivedere cento volte e ogni volta ti sembra di sentire l’odore di birra versata sul pavimento e il clangore dei pugni sui denti. Non è solo un semplice film d’azione: è una parabola sulla resistenza, sulla bellezza di lottare anche quando tutto sembra perduto. È un inno alla cattiveria necessaria, ma sempre sotto il controllo zen di un uomo che sa che la violenza è solo l’ultimo, inevitabile e devastante passo.

Hank Cignatta

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