Savannah, la pornostar che sognava Hollywood
Savannah
È iniziato tutto una notte qualunque, bazzicando dal mio smart tv distrattamente YouTube in cerca di dare un senso a quella notte insonne. Tra interviste dimenticate e documentari di bassa risoluzione è comparso il volto di Savannah: occhi grandi, sorriso da copertina ma con quella crepa invisibile che ti fa capire che dietro c’è un burrone. Non cercavo nulla, eppure mi ha trovato lei. La voce narrante parlava di Shannon Michelle Wilsey, in arte Savvanah, la pornostar che voleva diventare attrice, diva, icona e che invece è rimasta intrappolata in un copione scritto da altri.

Da quel momento non era più un documentario: era un pugno nello stomaco, un articolo già pronto che mi chiedeva di nascere. Perché Savannah non è solo la storia di una caduta, è il promemoria che l’industria dei sogni è un tritacarne, e che dietro ogni poster patinato c’è un corpo che sanguina. Scrivere di lei significa scrivere di noi, di come ci lasciamo sedurre dai miraggi e poi ci scandalizziamo quando il miraggio si spegne.

Una stella che bruciava troppo in fretta
Shannon Michelle Wilsey, meglio conosciuta come Savannah, non era solo una pornostar degli anni Novanta: era un’icona dannata, una bomba a orologeria con i capelli biondi ossigenati e la disperata ossessione di voler essere più grande della vita stessa, come dicono gli americani. La sua parabola è il classico copione di Hollywood scritto con il sangue: sogni troppo grandi, sostanze lisergiche chiamate a riempire i vuoti, uomini sbagliati e una macchina dello spettacolo che ti divora appena smetti di brillare.

Io la vedo ancora, in quelle VHS sgualcite ed appiccicose passate di mano nei retrobottega dei videonoleggi, lo sguardo da bambola rotta che cerca disperatamente un ruolo più grande del set porno. E invece il ruolo che la vita le aveva assegnato era quello di una ragazza vittima dei suoi demoni e di un tragico destino.
L’inizio: la ragazza della porta accanto travestita da mito
Savannah nasce in California nel 1970, cresciuta con il sole e il mito del cinema a pochi chilometri da casa. Non era una di quelle ragazze nate con il porno nel sangue: voleva Hollywood, i riflettori veri, i set di lusso. Ma Hollywood è una puttana che chiede pegni insostenibili e Savannah ha scelto la strada più breve per entrare nel mito: il porno.

Entrata nell’industria a fine anni Ottanta, diventa subito una delle figure più richieste: capelli biondo platino, pelle abbronzata, un’aria da starlet alla Marilyn Monroe, ma con una ferocia sessuale che inchiodava lo spettatore allo schermo. Le major del porno se la litigavano e lei cavalcava quell’onda come se non ci fosse un domani.
Il mito di Savannah: più di una pornostar, meno di un’attrice
Non era una qualsiasi performer. Era Savannah, il marchio registrato del desiderio maschile americano.
Gira film, colleziona fan, vive di eccessi. Viene presentata come “la Marilyn del porno”, un’etichetta che lei stessa cercava e detestava. Croce e delizia.

Dietro la patina di sex symbol, però, c’era la ragazza spezzata, convinta che ogni scena fosse solo una prova generale per il cinema vero. Insegue casting, si propone per parti fuori dal circuito hard, ma Hollywood la snobba: era marchiata a fuoco, e quel marchio non andava via.
Amori malati e cadute libere
Nella sua vita si alternano uomini come personaggi secondari di un dramma scritto male: rockstar (Billy Idol, Gregg Allman, Slash dei Guns’N’Roses e Vince Neil dei Motley Crue) starlette, produttori. Tutti volevano Savannah, nessuno voleva Shannon. Gli eccessi diventano la regola: cocaina, alcol, pillole. Non più strumenti di piacere, ma stampelle per reggere il peso di un’identità che stava implodendo.

Ogni notte era un collage di party, corpi e polveri bianche. Ogni mattina il risveglio di una donna che si guardava allo specchio e non riconosceva più la ragazza che voleva essere famosa.
La notte maledetta: 11 luglio 1994
È l’estate del 1994, Los Angeles ribolle di calore e di deliri. Savannah si schianta con la sua Corvette, ubriaca, sballata, devastata. Si ferisce al volto, perde il controllo, e con esso anche l’ultima illusione di essere un’attrice “spendibile” fuori dall’hard.
Torna a casa ferita, nel corpo e nell’anima. Non è solo l’incidente: è il peso di anni di fallimenti accumulati, sogni irrealizzati, etichette che la soffocano. Prende una pistola e si spara alla testa.
Aveva ventitré anni. Ventitré. Una carriera costruita e distrutta in un battito di ciglia. Una stella bruciata troppo in fretta, lasciando dietro di sé solo VHS e articoli di cronaca.
Savannah e la maledizione delle dive del porno
La sua morte entra subito nella leggenda nera dell’industria pornografica: la conferma che dietro i riflettori c’è un tritacarne. Le colleghe parlano di lei come di un’anima fragile, una che voleva uscire, ma che non ha trovato la porta.
Savannah è la Marilyn del porno non solo per la bellezza, ma per la tragedia. Entrambe inseguivano Hollywood, entrambe hanno trovato la fine in una stanza buia, sole con i propri fantasmi.
Gonzo nel sangue: vedere Savannah per capire l’America
Parlare di Savannah significa raccontare l’America che ti vende il sogno e ti condanna se non sei in grado di reggerlo. Lei era il simbolo della carne da macello che Hollywood produce e butta via: una ragazza che voleva essere attrice ma che l’industria dei sogni ha guardato irridendola. Guardare i suoi film oggi non è più eccitazione ma un tuffo in quella malinconia che solo il giornalismo Gonzo può masticare e sputare: dietro ogni scena hard si cela un grido disperato per un ruolo che non sarebbe mai arrivato.

Conclusione
Oggi Savannah è un nome inciso nell’immaginario del porno e nelle liste delle morti premature di Hollywood. Non è mai diventata attrice mainstream ma la sua ombra continua ad aleggiare su un’industria che brucia i suoi idoli come sigarette.
La sua storia è un monito, un romanzo breve e feroce che ricorda quanto sia sottile il confine tra successo e autodistruzione. Savannah non era solo una pornostar. Era una ragazza che voleva essere amata da Hollywood, e che invece ha trovato un pubblico famelico che l’ha applaudita fino a consumarla. Una fiamma che non ha mai avuto il tempo di spegnersi lentamente: ha incendiato tutto e se stessa con esso.
Hank Cignatta
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