Heartbeat, ovvero quando Don Johnson provò ad essere rockstar
La puntina, la polvere e il cerchio che si chiude
Anche in questo caso non so come ci sia finito nella mia collezione, questo disco. Giuro che non ricordo di averlo comprato, né scambiato o tantomeno vinto ad una riffa clandestina durante una notte troppo lunga per essere vera. Eppure era lì, infilato di traverso tra un vecchio pressaggio vinilico teutonico dei Kraftwerk e un 45 giri dei Talking Heads che non ricordavo nemmeno di possedere. Heartbeat, di Don Johnson, pubblicato nel 1986. La copertina impolverata, la faccia di Sonny Crockett stampata come un fantasma in giacca di lino che ti fissa e ti giudica per la musica contemporanea che ascolti o che sei costretto a sentire in un modo o nell’altro.

Ho passato dieci minuti buoni a chiedermi chi fosse il responsabile di quell’intrusione nella mia collezione: qualche figura amica che sa della mia passione per Miami Vice? Una versione alternativa di me stesso proveniente da un futuro a tinte neon? Oppure uno di quei colpi di shopping compulsivo da mercatino dell’usato del sabato mattina, quando il cervello è ancora annebbiato dai postumi di serate da dimenticare? Niente. Vuoto. Nessuna pista percorribile.

E allora ho capito che quando ti imbatti in un disco così misterioso, fuori posto e capace di cristallizzare un preciso periodo temporale non hai nessun diritto di ignorarlo. L’unica cosa sensata da fare, l’unica cosa davvero onesta, è posare la puntina sul vinile e lasciarlo cantare. Far si che quel solco racconti perché diavolo Heartbeat è finito in mezzo ai miei ricordi musicali, come una lama di luce sporca affondata tra i fantasmi degli anni Ottanta. E così è cominciata questa storia.

Il cuore in cassa dritta: quando l’icona televisiva Don Johnson decise di prendere la musica a morsi
Ci sono dischi che non ascolti e che ti si schiantano addosso. Heartbeat di Don Johnson è uno di questi: un monumento lucido e sudato dell’era in cui la televisione comandava il mondo e gli attori potevano improvvisarsi rockstar per semplice diritto divino. Era il 1986 e Miami Vice dettava legge. Johnson viveva a metà strada tra se stesso e Sonny Crockett: troppo sex symbol, troppo irrequieto e troppo anni Ottanta per non finire ad incidere un disco.

La genesi dell’ego sonoro: l’attore che voleva essere un rocker vero con Heartbeat
In studio giravano nomi che farebbero tremare chiunque: Willie Nelson, Ron Wood, Stevie Ray Vaughan e Bonnie Raitt. Johnson era l’outsider, il volto famoso che rischiava di essere divorato dai giganti. E invece no: ci si butta dentro come un pazzo, con convinzione, con fame.Il risultato è un disco eccessivo, melodrammatico, divertito. Un disco che prende a spallate (rigorosamente imbottite) chi lo ascolta.

Heartbeat: l’inno del vampiro romantico in giacca di lino
Un urlo. Un’esigenza. Un manifesto. Johnson canta come un reduce di guerra emozionale, avvinghiato al microfono come fosse l’ultima ancora prima di affogare nella propria immagine pubblica. Il videoclip è un delirio cinematografico che merita, per gli appassionati del periodo, tanto quanto ciò che si ascolta.

Chitarre, synth e lacrime in technicolor: il suono di un’epoca che non tornerà più
Il disco è una colata di pop-rock pompato, synth lucidi come vetro bagnato, batterie energiche e un romanticismo spinto all’eccesso. Un’estetica sonora che profuma di motel, limousine bianche e notti infinite a South Beach.

TRAccia per traccia – Analisi gonzo dei brani principali
Heartbeat
È il cuore pulsante del disco, non solo per titolo ma per costruzione. La batteria picchia come un cuore sotto anfetamine, le chitarre aprono varchi nell’aria umida di Miami e Johnson ci si tuffa dentro con la passionalità di un uomo che vuole convincere il mondo (e se stesso) di essere più di un volto sullo schermo. Una dichiarazione di necessità, di bisogno, quasi di sopravvivenza.
Voice on a Hotline
Qui entriamo nel lato più melodrammatico del disco. È un brano che sembra nato in un parcheggio illuminato al neon, tra telefonate impossibili e amori che scivolano dalle dita come sabbia. Johnson canta come uno che ha perso qualcosa ma non sa esattamente cosa. Il risultato è un pezzo che odora di notte, pioggia e solitudine. Con sonorità tipicamente annim Ottanta e l’immancabile sax che rende tutto più epico.
The Last Sound Love Makes
Una ballata che sembra la colonna sonora perfetta per una scena cancellata di Miami Vice: un addio sussurrato sulla spiaggia, lui in giacca bianca, lei che se ne va senza guardare indietro. Il titolo è già un programma: l’ultimo suono che fa l’amore. Un po’ melodramma, un po’ poesia, molto anni Ottanta.
Lost in Your Eyes
Un brano che vuole essere sensuale, avvolgente, crepuscolare. Synth morbidi, chitarre che arrivano come onde lente, e una linea vocale che sembra sussurrata in segreto. È uno dei momenti più romantici del disco e Johnson ci crede davvero.
Coco Don’t
Il pezzo più sorprendente della tracklist. È leggero, frizzante, quasi giocoso. Un brano che sembra scritto durante una pausa dalle riprese, quando qualcuno ha messo una chitarra in mano a Johnson e lui ha deciso di divertirsi. E forse è andata realmente così. Chi lo sa. Ha un’allure tropicale, una spensieratezza contagiosa: è la Miami più luminosa del disco.
Le tracce nell’ombra: ciò che resta di Heartbeat quando il neon si spegne
Oltre ai singoli, il resto dell’album mantiene un equilibrio strano tra ingenuità e ambizione. C’è sempre questa sensazione di voler lasciare un segno, di non essere un semplice side-project televisivo, ma un tentativo reale di costruire un’identità musicale. Ed è questo che sorprende: la sincerità.

Don Johnson vs Philip Michael Thomas: la guarra di Miami Vice nelle classifiche
Il confronto con l’altro detective di Miami è inevitabile. Se Philip Michael Thomas puntava alla trascendenza mistica, Johnson punta alla terra: al palco, al sudore, alla posa Due mondi paralleli, due modi opposti di cercare un posto nella storia musicale degli anni Ottanta.

L’eredità di Heartbeat: un reperto da conservare come una conchiglia radioattiva
Oggi questo disco è un cimelio, un oggetto di culto, una fotografia perfetta della cultura pop in eccesso. Funziona ancora vi chiederete? Sì, se lo ascolti come va ascoltato: di notte, con un buon bicchiere bourbon e un buon sigaro e la sensazione che dietro l’angolo ci sia ancora un’inquadratura di Michael Mann. Un cuore che batte ancora. Un Heartbeat, appunto.
Hank Cignatta
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