The Cure, viaggio nel lato gotico del rock

The Cure, viaggio nel lato gotico del rock

Introduzione: entrare nella nebbia con Robert Smith

Ci sono band che raccontano la storia della musica. E poi ci sono i The Cure, che raccontano la storia di tutte quelle sere in cui ti sei guardato/a allo specchio chiedendoti perché cazzo continuavi a respirare. Per scrivere di loro bisogna abbandonare l’idea di essere “obiettivi”. Il giornalismo Gonzo richiede una discesa nel campo minato delle emozioni e i The Cure sono quell’ordigno a orologeria che pulsa in un angolo del tuo cervello da quando avevi quindici anni e ti pitturavi le unghie di nero per sfottere il mondo.

The Cure

Robert Smith non è solo un cantante: è un faro, un fantasma truccato da poeta decadente. La sua voce oscilla tra un sussurro d’amore e un urlo trattenuto per quarant’anni. E tu, povero/a cristo/a, ci sei dentro fino al collo.

Robert Smith, cantante e fondatore dei The Cure

Brighton, Crawley e il rumore di un mondo troppo stretto

Per capire da dove arriva la nevrosi elegante dei The Cure bisogna cominciare in provincia, in quella Crawley che negli anni Settanta sapeva di strade bagnate, case tutte uguali e sogni rinchiusi negli armadi come cappotti fuori moda.

Uno scorcio di Crawley

Nel 1976 nasce la prima incarnazione: Easy Cure. Un nome che sembra una presa in giro, considerando che nulla, nella loro musica, sarà mai easy. Poi tagliano il superfluo e restano solo The Cure. Mano di forbice. Via il resto.

“Three Imaginary Boys”: l’inizio dell’incubo rosa shocking

Il debutto del 1979 è pulito, quasi minimal, ma già infestato da quella strana energia depressa che farà da marchio. Brani come 10:15 Saturday Night ti entrano nel cranio come una lampadina al neon che sfarfalla in un bagno pubblico alle tre del mattino.


È il suono di un ragazzo che guarda gocce d’acqua cadere da un rubinetto e capisce che il mondo potrebbe finire e nessuno se ne accorgerebbe. È punk? È post-punk? È solo disagio? Tutte e tre le cose fuse in un cocktail che sa di insonnia e gin economico.

La trilogia oscura: quando il mondo diventò nero

Tra il 1980 e il 1982 The Cure firmano la loro fase più depressa, visionaria e artisticamente violenta. Una trilogia che è un cadavere ancora caldo: Seventeen Seconds, Faith e Pornography.

Seventeen Seconds: la bellezza del minimalismo disperato secondo i The Cure

Immagina di camminare in un bosco coperto di nebbia, senza sapere se stai andando avanti o in cerchio. Ecco Seventeen Seconds. La chitarra suona come un filo d’argento sospeso nel vuoto. La batteria è un battito cardiaco rallentato. La voce di Smith sembra provenire da un vecchio registratore abbandonato in soffitta.

Faith: la rassegnazione come arte

Con Faith non è più tristezza. È un funerale lento di tutto ciò che avevi dato per scontato.

Pornography: l’inferno, finalmente

Nel 1982 Robert Smith entra in studio completamente devastato dalla depressione, sostanze e idee autodistruttive. Ne esce un disco che sembra la colonna sonora di un suicidio rituale in una stanza rossa. O almeno a me ha sempre dato questa impressione. It doesn’t matter if we all die, dice l’incipit. E tu capisci che nessun gruppo rock sarà mai più così sincero.

La svolta pop degli anni Ottanta: Smith vede un barlume di luce (ma resta truccato come un vampiro nevrotico)

Dopo aver toccato il fondo, Smith decide di risalire. Ma a modo suo, ovviamente: ballando su ritmi pop mentre canta la malinconia più dolce della storia.

“The Walk”, “Let’s Go to Bed”, “The Lovecats”: il lato giocoso del dramma

Sono canzoni che ti fanno ballare, sì, ma con un nodo in gola. È come sorridere con la consapevolezza che il mondo continuerà a ferirti.

The Head on the Door e Kiss Me, Kiss Me, Kiss Me: la consacrazione dei The Cure

Qui i The Cure diventano giganti. Robert Smith scopre che può essere oscuro e melodico. Dolce e devastante. Colorato e gotico. La formula funziona: il mondo si innamora di lui come ci si innamora del primo amore.

1989: Disintegration – Il capolavoro di un uomo che sta cadendo a pezzi

Se c’è un disco che riassume l’anima dei The Cure, è Disintegration. Un monumento fatto di pioggia, eco e lacrime cristallizzate.

Un album che si ascolta e si vive

Pictures of You, Lovesong, Disintegration, Fascination Street. È la colonna sonora dell’ultima notte prima della fine dell’universo.

È un album che ti ricorda che sei vivo solo perché fa male. Robert Smith aveva appena compiuto 30 anni e temeva che la sua carriera fosse finita. Così ha deciso di distruggersi artisticamente, lasciando un capolavoro che ancora oggi si ascolta come un rito.

Gli anni Novanta: successi, fratture e sopravvivenza emotiva

Wish viene pubblicato nel 1992 e porta la band al massimo della popolarità. Friday I’m in Love diventa un classico globale: ironico, considerando che Smith odia l’euforia forzata del mainstream. Gli anni Novanta oscillano tra sperimentazioni, pause, cambi di formazione e momenti di fulgore. Intanto i The Cure diventano un mito vivente. Un’istituzione emotiva.

L’Ingresso nella Rock & Roll Hall of Fame: Robert Smith contro lo show-business

Il 2019 sancisce ciò che i fan sanno da quarant’anni: The Cure sono un pezzo della storia del rock e della musica ed entrano nella Rock & Roll Hall of Fame. Smith arriva sul red carpet come uno a cui hanno sbagliato indirizzo. La famosa intervista con la giornalista esaltata e lui freddo come un lampione bagnato diventa storica.

Questa intervista è il riassunto di tutta la filosofia Cure: onestà brutale, zero narcisismo e totale rifiuto del teatrino mediatico. Durante il discorso, Smith ringrazia senza recitare. Parla con tono pacato, quasi timido, come uno che non ha mai chiesto niente. La Hall of Fame non li ha semplicemente premiati: ha certificato la loro influenza planetaria.

Robert Smith e Cheyenne: l’icona che diventa cinema

Tra i mille personaggi ispirati a Smith, ce n’è uno che merita un altare: Cheyenne, interpretato da Sean Penn nel film This Must Be the Place, diretto da Paolo Sorrentino nel 2011. Cheyenne è chiaramente un’emanazione dell’immaginario Cure:
trucco sbavato, postura stanca, voce flebile, ironia amara. Un ex rocker che porta la propria tristezza come una reliquia.

Sean Penn studia Robert Smith come un monaco studia un testo sacro: le movenze, la lentezza, il modo di parlare come se ogni frase fosse una confessione.

Sorrentino non cerca una copia ma l’essenza. E trova un archetipo: la stanchezza esistenziale come estetica. Smith non ha mai rivendicato formalmente il legame, ma è evidente: senza la sua iconografia, Cheyenne non sarebbe mai nato.

Conclusione: The Cure come religione laica della malinconia

I The Cure non sono un gruppo rock. Sono una condizione umana. Una lente nera con cui osservare il mondo, una biblioteca di emozioni irrisolte, un’armatura fatta di trucco, capelli arruffati e sincerità brutale. Robert Smith ha creato un luogo dove la fragilità non è debolezza ma linguaggio. Un rifugio per chi guarda la pioggia e ci vede poesia E questo, più di ogni premio, moda o epoca storica è il motivo per cui i The Cure continueranno a sopravvivere anche quando noi non ci saremo più.

Hank Cignatta

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Sono la mente insana alla base di Bad Literature Inc. Giornalista pubblicista, Gonzo nell’animo, speaker radiofonico, peccatore professionista, casinista come pochi. Infesto il web con i miei articoli che sono dei punti di vista ( e in quanto tali condivisibili o meno) e ho una particolare predisposizione a dileggiare la normalità. Se volete saperne di più su di me e su Bad Literature Inc. leggete i miei articoli. Ma poi non dite che non siete stati avvertiti.

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