Charlie Sheen, storia di un re del caos
Era inevitabile. Prima o poi avrei dovuto scriverlo, questo articolo. Charlie Sheen non è solo un attore: è un esperimento sociale scappato dal laboratorio di dio. Un test fallito o riuscito a metà, dipende dai livelli di follia che uno è disposto ad accettare come misura di autenticità. Mettersi davanti a un film come Platoon o una puntata di Due uomini e mezzo significa entrare nel territorio sacro della contraddizione.
Da una parte l’attore figlio d’arte, destinato alla gloria sin dalla culla. Dall’altra l’uomo che si è fatto saltare in aria, volontariamente, per dimostrare che la pazzia è una forma di libertà. Charlie Sheen è l’erede bastardo del sogno americano, il frutto radioattivo di un’industria che mastica i propri figli e li sputa sulla Walk of Fame.

Da Carlos Estevez a Charlie Sheen: nascita di una maschera lucida e spietata
Nato come Carlos Irwin Estévez, figlio di Martin Sheen e fratello di Emilio Estevez, Charlie non ha scelto la recita: è nato nel set, in mezzo a luci finte e urla vere. Già da bambino conosceva il ritmo sincopato dei ciak, l’odore della pellicola calda e il peso dell’aspettativa. Negli anni Ottanta la sua faccia diventa il volto di un’America piena di cocaina e arroganza, quella dei broker di Wall Street, dei ragazzini che citavano Reagan mentre sniffavano sugli specchi da bagno.

Platoon lo consacra come simbolo della gioventù disillusa, Wall Street lo mette al fianco di Michael Douglas in una danza di soldi, potere e dannazione. Hollywood lo ama perché incarna perfettamente ciò che vorrebbe essere: giovane, bello, impunito. Ma Sheen è troppo reale, troppo consapevole di essere la caricatura di se stesso. Inizia a distruggere la propria immagine con la precisione di un kamikaze.
Gli anni Novanta: sesso, pistole e sangue finto che diventa vero
C’è una fase della carriera di Sheen che sembra scritta da Hunter S. Thompson dopo una settimana senza dormire. Film come Hot Shots! lo trasformano in un eroe demenziale, ma sotto quella comicità esplosiva si intravede la furia di un uomo che non sa più distinguere il set dalla vita. Durante le riprese, raccontano, portava le proprie armi vere, come se il mondo di Topper Harley dovesse fondersi con quello di Apocalypse Now. La realtà diventa parodia, la parodia diventa biografia.
Le cronache del tempo parlano di prostitute, di festini degni di Caligola, di overdose sfiorate come se fossero passatempi del venerdì sera. Ma non è gossip: è parte integrante dell’opera. Charlie Sheen vive come recita, recita come sopravvive.

“Winning!”: quando la follia diventa filosofia
Arriva il 2011 e Charlie Sheen si trasforma in un meme vivente. Dopo essere stato cacciato da Due Uomini e mezzo, la sitcom che gli aveva restituito il trono di Hollywood, decide di farsi profeta. La parola d’ordine è Winning! – vincere, sempre, anche quando il mondo ti guarda come un relitto.
Le interviste diventano liturgie psichedeliche: Sheen parla di “tigre nel sangue”, di “adoni spaziali”, di “verità interdimensionali”. È un uomo che si guarda allo specchio e non si riconosce, ma decide che va bene così.
Ogni frase è un’esplosione di ego e disperazione, un misto di ironia e verità profonda. Come se Bukowski e Dalí avessero scritto insieme un monologo da talk show.
Hollywood lo dimentica, ma il mito di Charlie Sheen resta nel sangue
Dopo lo scandalo, dopo le confessioni pubbliche, dopo l’HIV annunciato in diretta TV, Hollywood chiude la porta. Ma chi crede che Charlie Sheen sia finito non ha capito nulla della sua natura. Non puoi uccidere chi ha già fatto a pezzi se stesso. Oggi Charlie è un sopravvissuto, una figura mitologica che vaga ai margini del sistema che lo ha creato. Forse non reciterà più in un blockbuster, ma ogni volta che qualcuno rivede Platoon o Wall Street si accende la scintilla di ciò che è stato: talento puro, bruciato per illuminare per un secondo la notte.

Il Gonzo in lui: l’uomo che ha raccontato Hollywood meglio di qualsiasi film
Charlie Sheen non è solo un attore. È un documento vivente dell’era in cui verità e spettacolo si sono fuse in un’unica sostanza psicotropa. Ha vissuto come Hunter S. Thompson avrebbe voluto vivere, senza penna ma con la stessa rabbia nel sangue. Guardandolo, si capisce che la pazzia non è sempre un sintomo: a volte è una dichiarazione di guerra contro la normalità. E forse è proprio questo il segreto della sua leggenda: la convinzione che la rovina, se vissuta con stile, diventa arte.
Conclusione: Charlie Sheen, il santo patrono degli autodistruttivi
Charlie Sheen non chiede perdono. Non si pente. Non cerca redenzione. È il simbolo di un’epoca che ha perso la testa con un sorriso addosso, il santo patrono degli autodistruttivi, degli impuniti, dei dannati con il bicchiere mezzo pieno di whisky e rimpianti. Se Hunter S. Thompson fosse ancora vivo, probabilmente brinderebbe con lui in un motel del Nevada, discutendo su quanto sia sopravvalutata la sobrietà. E alla fine, in mezzo al caos e al rumore, sentiremmo solo la voce roca di Sheen che sussurra ancora una volta, come un mantra da camera di combustione: “Winning, baby. Always winning.”
Hank Cignatta
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