Whitney Houston, la voce che ha commosso il mondo

Whitney Houston, la voce che ha commosso il mondo

E’ una di quelle notti in cui l’insonnia ha il sapore del whisky e il ticchettio dell’orologio sembra una tortura medievale. Giro tra canali e streaming come un reduce da troppe notti in bianco finché non finisco su Youtube e una vecchia performance di Whitney Houston si accende davanti a me. I Wanna Dance With Somebody. Lei balla, ride. Lei è luce. E io, miserabile cronista gonzo della generazione post-tutto, resto ipnotizzato da quella voce che ancora oggi riesce a bucare lo schermo come una coltellata dritta al cuore e alla quale da tempo volevo dedicare un articolo.

Whitney non cantava — Whitney esisteva attraverso il canto. Era un miracolo con le gambe, una chiesa mobile, un uragano imbottigliato in paillettes. Ma dietro quella potenza divina si nascondeva la crepa più umana di tutte: la fame d’amore, quella che ti divora mentre il mondo applaude.

Whitney Houston e l’America che voleva sentirsi pulita

Negli anni Ottanta l’America aveva bisogno di un volto nuovo, lindo e brillante, dopo le cicatrici del Vietnam e la paranoia della Guerra Fredda. Whitney arrivò come un angelo: bella, elegante e senza macchia. Figlia d’arte (la madre Cissy Houston cantava gospel mentre sua cugina era Dionne Warwick) Whitney era la risposta perfetta al bisogno d’innocenza del pop americano.

Clive Davis, il profeta discografico che la scoprì, vide in lei il futuro. The Voice, la chiamavano. E aveva ragione: quella voce era pura dinamite spirituale.

Dal debutto nel 1985 al trionfo di I Will Always Love You, Whitney diventò la colonna sonora del decennio. E in un certo senso divenne anche l’inizio del suo calvario personale. Dietro la vetrina dorata, l’industria stava costruendo un idolo da santificare e controllare. Ogni sorriso era una strategia, ogni nota una moneta. L’America aveva finalmente il suo volto perfetto ma il sorriso di Whitney cominciava ad incrinarsi.

The Bodyguard: la canzone perfetta di un amore impossibile

Nel 1992 Whitney Houston fece il salto definitivo nell’immortalità con The Bodyguard. Il film è un melodramma pop con Kevin Costner nei panni dell’uomo che doveva proteggerla e sembrava essere solo un’altra favola hollywoodiana, ma in realtà era una seduta spiritica con la fama. E poi arrivò I Will Always Love You.

Una canzone già scritta da Dolly Parton, ma che nelle mani (e nella gola) di Whitney divenne qualcos’altro: un atto divino. L’intro a cappella è uno dei momenti più puri della storia della musica pop, una sospensione del tempo, come se il mondo trattenesse il respiro. Quando la voce esplode, non è più una canzone: è una dichiarazione d’eternità. È il canto di una donna che ama troppo e sa che quell’amore la distruggerà. Whitney Houston, in quell’interpretazione, non stava recitando. Stava pregando.

Kevin Costner e Whitney Houston in una scena del film

Bobby Brown e la caduta nella trappola dell’amore malato

Poi arrivò Bobby Brown, e il sogno si trasformò in un film di David Lynch. Due anime incandescenti che si attrassero come due meteoriti destinati a collidere (cazzarola, sono un poeta!). Bobby era l’incarnazione del caos, l’opposto della purezza di Whitney. Ma l’amore, a volte, non è una benedizione: è un detonatore. I tabloid iniziarono la danza macabra. Droga, litigi, arresti. Il mondo che una volta l’aveva venerata ora voleva vederla cadere.

E Whitney, in un modo tragicamente poetico, glielo concesse. Ogni intervista diventava un frammento di autodistruzione, ogni canzone un ricordo di ciò che era stata. Dietro gli occhi stanchi c’era una donna stufa di essere un simbolo, un prodotto, una Madonna pop. Whitney voleva solo essere Whitney ma il mondo non le permise mai di smettere di essere Houston.

Love Will Save The Day: la luce che resiste

In mezzo ai titani del suo repertorio — I Have Nothing, Greatest Love of All, Run to You — esiste una piccola gemma che spesso viene dimenticata: Love Will Save The Day. È la Whitney più gioiosa, più danzereccia, quella che ancora credeva nel potere redentore della musica. Un brano che corre su ritmi quasi latini, con un’energia contagiosa e un messaggio semplice ma essenziale: l’amore, nonostante tutto, resta la via d’uscita. Forse è proprio lì che si nascondeva il segreto della sua anima: nella convinzione disperata che l’amore potesse ancora salvarla, anche quando il mondo le aveva voltato le spalle.

Il suono della gloria e del dolore

Ascoltare The Bodyguard Soundtrack oggi è come leggere un testamento cantato. “I Will Always Love You” è una canzone d’amore che sa di confessione. È come se in ogni nota lei avesse messo il dolore di chi sa di essere amata da tutti tranne che da sé stessa. La sua voce, un tempo perfetta, cristallina, cominciò a incrinarsi come un vetro sotto pressione. Ma anche in quella rovina, in quelle crepe sonore, c’era una bellezza feroce. Whitney cantava da sopravvissuta e la sopravvissuta non è mai perfetta: è vera.

Whitney Houston contro se stessa

La fine arrivò come un lento naufragio in una vasca d’albergo, l’ennesima stanza d’hotel che diventa teatro della tragedia. Ma ridurre Whitney Houston alla sua morte sarebbe come ricordare Hemingway solo per il colpo di fucile o Amy Winehouse solo per il vino nel sangue. Whitney è stata la sintesi di due estremi: la purezza e il peccato, il cielo e il fango. Era troppo umana per vivere come un’icona e troppo divina per restare solo una donna. E quando l’industria smise di proteggerla la bestia dello show business la divorò viva.

La parte malata del nostro mestiere. Che schifo.

Whitney Houston, una voce che non muore mai

Dieci, venti, cento anni da ora, qualcuno accenderà una vecchia registrazione di I Have Nothing o Greatest Love of All e sentirà ancora quella forza che non conosce tempo. Whitney non è mai morta, non del tutto. Vive in ogni voce che osa spingersi oltre il limite, in ogni ragazza che canta davanti allo specchio sognando di essere ascoltata dal mondo intero.

Whitney Houston non fu solo la regina del pop. Fu un esperimento divino finito male, una parabola americana scritta in tonalità maggiore. Una donna che tentò di essere Dio per troppi anni scoprendo di essere più umana di tutti, pagandone il prezzo più alto. Whitney Houston resta una delle figure più complesse e magnetiche della musica pop mondiale. Attraverso la sua voce e la sua caduta, ha raccontato l’illusione e la brutalità del sogno americano. E in fondo, ogni volta che la ascolti, sembra ancora di sentirla dire: “I will always love you.”

Hank Cignatta

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