Nomikai, quando il Giappone smette di fingere e inizia a bere
Tokyo, notte di luci e sake
La metropolitana sputa fuori frotte di uomini in giacca e cravatta, tutti uguali, tutti piegati dallo stesso peso invisibile: il dovere, l’onore, il ritmo bestiale della società giapponese. Poi però c’è il nomikai, il rituale della liberazione alcolica e in quell’attimo i Salary Men si trasformano in esseri umani che ridono, urlano, piangono e vomitano in un vicolo, come se la vita fosse un enorme karaoke da cantare completamente ubriachi. Non è solo “bere con i colleghi”. È un’orgia sociale in cui la sobrietà viene impiccata con una cravatta slacciata e le barriere gerarchiche si sciolgono in un vortice alcolico.

Nomikai: manuale per sopravvivere
Il termine è semplice: “nomu” significa bere, “kai” significa incontro. Risultato: incontro per bere. La formula magica per distruggere le distanze e cementare i rapporti di lavoro. Non partecipare non è solo maleducazione: è un suicidio sociale. In Giappone il nomikai non è un invito, è un obbligo morale. Se ti assenti o resti fuori dal giro, diventi un’ombra nel tuo stesso ufficio. Ma attenzione: il nomikai non è un happy hour da fighetti occidentali. È un campo di battaglia. Le regole sono sottili: non bisogna mai versare il proprio bicchiere e si deve riempire quello del collega. Mai rifiutare un brindisi, sarebbe un insulto. E soprattutto: devi bere, anche se non ti va. L’alcol è l’inchiostro con cui si scrive la vera faccia dei rapporti sociali.

Bere per parlare, parlare per sopravvivere
Nelle ore lavorative il Giappone è una macchina perfetta di silenzi, sguardi bassi e gerarchie scolpite nella pietra. Ma al nomikai quella pietra si sgretola. Il capo che di giorno è un semidio intoccabile diventa un ubriacone che ti abbraccia e ti chiama “amico”. Il collega introverso improvvisamente confessa di voler mollare tutto e aprire un bar a Okinawa. L’impiegata timida, piegata dalla formalità, canta a squarciagola un brano di Utada Hikaru davanti a tutti. Il nomikai è il bug nel sistema giapponese: un momento di verità mascherato dall’alcol. Un baccanale organizzato per dare sfogo a quello che, senza la protezione dell’ubriachezza, non potrebbe mai emergere.

Il lato oscuro del bicchiere
Dietro le risate e le foto sfocate, però, si nasconde anche la trappola.
Il nomikai è un obbligo travestito da festa. È la dimostrazione che in Giappone la collettività viene prima dell’individuo. Non importa se sei stanco, non importa se odi il sake: tu bevi. Perché rifiutare equivale a dire “non faccio parte del gruppo”. E il gruppo, in Giappone, è tutto. Molti giovani salarymen confessano che preferirebbero scappare a casa dopo il lavoro, magari per giocare alla PlayStation o dormire. Ma la pressione sociale è più forte della voglia di sopravvivere. Così i nomikai diventano routine settimanali, un ingranaggio in più della macchina alienante che chiamiamo “cultura aziendale nipponica”.

Nomikai come specchio del Giappone
E allora cos’è davvero il nomikai? Una festa? Una tortura sociale? Una valvola di sfogo necessaria?
La verità è che il nomikai è il Giappone stesso: formalità e follia che si rincorrono, disciplina e trasgressione che ballano insieme fino a crollare sulle scale della metro. È la contraddizione perfetta di un popolo che ha bisogno di bere per dire quello che sente, di una società che ha creato un rituale ufficiale per l’arte di perdere la faccia senza perdere la faccia.

Epilogo di un bicchiere vuoto
Se vuoi capire il Giappone, non basta leggere Murakami o guardare Miyazaki. Devi sederti a un nomikai, alzare il bicchiere, e lasciare che il sake faccia il resto. Perché il Giappone vero non sta solo nei templi silenziosi o nelle metropoli futuristiche ma anche in un salaryman ubriaco che ti chiama fratello mentre vomita ramen sul marciapiede.
Hank Cignatta
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