
Il mito alcolico del Coca Buton
Introduzione: Nelle viscere della memoria liquida
Era un pomeriggio bolognese impastato di smog e umidità quando decisi di infilarmi nella tana del coniglio. Stavo cercando un alcolico, ma non uno qualunque. Volevo qualcosa di dimenticato, esoterico, che avesse il sapore del peccato coloniale e l’aroma di una bugia ben confezionata. Fu così che incappai nel Coca Buton, reliquia distillata di un’Italia che si è fregata con le sue stesse mani. Un liquore che un tempo si trovava tra gli scaffali come un idolo esotico e che oggi sopravvive come fantasma nelle credenze delle nonne e nei mercatini dell’antiquariato etilico.

Il segreto della Coca: foglie, follia e farmacologia
Coca Buton nasce in un’epoca in cui la parola coca non faceva ancora tremare i NAS. Siamo sul finire dell’Ottocento, anni in cui la Distilleria Buton di Bologna — già famosa per l’Alcool Buono da Sbornia Onesta — decide di importare foglie di coca dal Sud America. Esatto: foglie di coca vere. Il tutto legalmente, prima che il proibizionismo mondiale si accanisse su tutto ciò che rendeva le domeniche giorni degni di essere dignitosamente vissuti. Non era droga, no — o almeno non nel senso moderno. Era uno stimolante digestivo, un tonico per vecchi e giovani, madri ansiose e padri depressi, una pozione miracolosa che prometteva energia, focus e una botta di vita. Oggi lo chiameremmo energy drink, ma più onesto e molto, molto più elegante.

Coca Buton: Un’etichetta coloniale per un’anima anarchica
L’etichetta originale è un trip grafico. Palmeti, profili andini, un’aura quasi messianica. Il liquore veniva presentato come il risultato della scienza europea applicata all’esotismo tropicale. Una supercazzola distillata, ma efficace.
La Coca era l’oro verde e l’Italia voleva la sua parte. In fondo, se all’epoca i francesi avevano il Vin Mariani e gli americani si bevevano la Coca-Cola con la cocaina dentro, perché noi saremmo dovuti restare sobri?

Degustazione giornalisti senza piombo: il sapore dell’impossibile del Coca Buton
La bottiglia che trovo è una reliquia. Polverosa, con la capsula arrugginita e un’etichetta che odora di muffa e gloriosa decadenza. La apro come si apre una bara antica. Al naso: note di erbe alpine, chinino, menta stanca, qualcosa che sa di monastero e di bordello. Al palato: è uno schiaffo, non una carezza. Ti tira dentro con il gusto dolciastro del caramello e ti sbatte fuori con un retrogusto amarissimo, quasi medicinale. È l’equivalente liquido di una poesia maledetta, qualcosa tra Baudelaire e il Fernet Branca.
Proibizione, oblio e resurrezione da garage del Coca Buton
La coca è bandita. Lo Stato si sveglia, gli americani impongono il loro modello di sobrietà e i Buton smettono la produzione. Coca Buton sparisce dai radar. Ma l’anima del liquore resiste. Alcuni fanatici del vintage alcolico (hipster prima del termine) cominciano a cercarlo. Le bottiglie diventano oggetti di culto, reperti archeologici del piacere proibito. Inizia il mercato nero dei collezionisti. Sui forum specializzati c’è chi vende mezze bottiglie a cifre da investimento azionario.

Gonzo epilogo: la sbornia come resistenza
Mentre scrivo queste righe ho ancora il palato che pulsa. Il Coca Buton non è un liquore: è un atto politico in bottiglia. È l’eco di un’Italia folle e curiosa, che voleva bere il mondo e digerirlo con classe. Non esiste oggi un suo equivalente. Tutto è troppo regolamentato, pastorizzato, instagrammabile. Ma il Coca Buton no. Lui è lo spettro anarchico di un secolo perduto, il sospiro dolce-amaro di un sogno coloniale finito male ma che, per un attimo, ci ha fatto credere di essere immortali.
Hank Cignatta
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