
L.A. Noir: un viaggio tra corruzione, sigarette e cadaveri
Los Angeles, 1947. Il sole brucia l’asfalto mentre la città è un’orgia di neon, fumo di sigarette e bourbon versato in bicchieri che non annoverano certo la pulizia tra i loro punti di forza. E nel bel mezzo di questo marciume dorato c’è Cole Phelps (che ha il volto dell’attore Aaron Staton). Tutto questo è L.A. Noir.

O almeno Cole Phels vi ci sarà per le prossime trenta ore di gioco. L.A. Noire, il capolavoro di Team Bondi e Rockstar Games, è un’allucinazione interattiva. Un noir giocabile, un viaggio in un’epoca che trasuda criminalità e doppi giochi. E io sono qui per raccontarvelo con un sigaro che si consuma nel posacenere e un bicchiere di whisky a portata di mano.

Un detective con troppi fantasmi
Cole Phelps è il classico eroe tragico. Ex marine decorato, rigido come il manuale di procedura della polizia di Los Angeles, deciso a ripulire le strade con la stessa dedizione con cui si lucida le scarpe. Ma c’è un problema: in questa città, più scavi nella merda e più la merda ti sommerge. E Phelps, con la sua ossessione per la giustizia, sta scavando con una pala troppo grande.

La narrazione di L.A. Noir si dipana attraverso diversi dipartimenti: Traffico, Omicidi, Incendi Dolosi, Narcotici. Ogni caso è una finestra su un’umanità decadente, una carrellata di disperati, assassini e bugiardi. Il gioco non ti prende per mano. Devi analizzare gli indizi, scrutare le espressioni dei sospettati, distinguere le menzogne dalla verità. E se sbagli, qualcuno ci rimette le penne. Di solito, non tu.
Il realismo di una dannata Los Angeles d’annata
L.A. Noire non è un sandbox nel senso classico. Puoi guidare attraverso la città, ma il vero fulcro è l’investigazione. Eppure, Los Angeles è viva, pulsante. I vicoli nascondono segreti, gli attori digitalizzati muovono le labbra e gli occhi con un realismo inquietante, grazie a una tecnologia di motion capture rivoluzionaria chiamata Motion Scan. Rockstar e Team Bondi hanno creato un’opera che sembra più un film giocabile che un videogame. E che film!
Interrogatori: tra arte e psicopatia
Dimenticate i soliti interrogatori stile poliziesco televisivo. Qui si gioca con il cervello. Lo sguardo sfuggente di un testimone, un tic nervoso o una pausa troppo lunga prima di rispondere: in L.A. Noir ogni dettaglio conta. Phelps può scegliere tra tre opzioni: Verità, Dubbio e Accusa. Sbagliare significa perdere prove fondamentali e compromettere il caso. La tensione è palpabile. Ogni dialogo è un duello psicologico, un braccio di ferro con la mente umana.
Un noir senza lieto fine
Il bello di L.A. Noire è che non ti illude. Qui non ci sono eroi. La giustizia è un concetto sfocato, i buoni non esistono e i cattivi vincono sempre, in un modo o nell’altro. La parabola di Phelps è quella di un uomo che vuole fare la cosa giusta in un mondo marcio fino al midollo. Ma la morale non paga, e il prezzo da pagare è salato.

Un capolavoro ingiustamente sottovalutato
Se ami il cinema di Hitchcock e le atmosfere alla Chinatown di Polanski, allora L.A. Noire è un’esperienza imprescindibile. È un tuffo in un passato oscuro e affascinante, un test per la tua capacità di osservazione e deduzione. Rispetto ai giochi che sono stati pubblicati dopo e alle tecnologie oggi disponibili potrebbe risultare non perfetto ma è un gioco che lascia il segno. E quando scorrono i titoli di coda, ti resta addosso la sensazione amara di aver vissuto qualcosa di unico. In fondo, Los Angeles non cambia mai. Solo i detective vengono dimenticati.
Hank Cignatta
Riproduzione riservata ©
Post a Comment
Devi essere connesso per inviare un commento.