
Paura e disgusto a Las Vegas, un selvaggio viaggio lisergico nel cuore del Sogno Americano
Guardo l’orologio. Le sei del mattino passate. Le tenebre si sono sfilate via in modo seducente da quel corpo maledettamente procace quale è la notte per lasciare il posto alle prime luci di un giorno che inizia ad alzarsi alto sui tetti sonnecchianti delle case che non vogliono rispondere al segnale di quella biologica sveglia. Due cubetti di ghiaccio tintinnano affogando nel rum che mi accompagna verso la mia nevrotica insonnia. Alzo lo sguardo verso la mia libreria ed ecco svettare tra tutti Paura e disgusto a Las Vegas, uno dei libri più importanti della produzione letteraria di Hunter S. Thompson , scrittore e giornalista americano, inventore del cosiddetto Giornalismo Gonzo.

Quando si parla di Paura e disgusto a Las Vegas bisogna fare un’importante e doverosa precisazione rispetto all’omonima opera cinematografica diretta dal visionario regista Terry Gilliam, con protagonisti Johnny Depp nel ruolo di Hunter Thompson/Raoul Duke e Benicio Del Toro in quello di Acosta/Dr. Gonzo. Certo, ci si trova al cospetto di una pellicola che, negli anni, è riuscita ad ottenere il bollino di film cult. Ciò non è avvenuto per particolari meriti cinematografici, distinguibili da chi ha una spiccata sensibilità nei confronti dell’analisi filmica (sceneggiatura, fotografia, dialoghi, prova d’attore e voci varie ed eventuali) ma perché la maggior parte del pubblico medio associa la pellicola alle droghe. Parte integrante del film e di tutta la vicenda nella sua versione letteraria, ma che sono solo una parte di tutto il contesto che sta alla base di uno dei più belli (e riusciti) prodotti giornalistici- letterari che ha influenzato un’intera generazione.

Elaboro, penso, scrivo ed elaboro ancora affacciandomi alla finestra della mia sala mentre in strada persone camminano o guidano di gran carriera per andare da qualche parte. I parcheggi sotto la mia abitazione si svuotano e si riempiono ad un ritmo frenetico e vorrà pur dire qualcosa. Finisco il mio rum. Dove ero rimasto? Ah si, giusto. Paura e disgusto a Las Vegas. Il film è quanto di più onirico abbia mai visto in vita mia. Amo alla follia quella fottuta pellicola. Ma il libro è davvero qualcosa di diverso. Non soltanto perché la tradizione vuole che l’opera letteraria sia di gran lunga migliore rispetto alla trasposizione cinematografica che rappresenta una versione personale di quanto il regista o lo sceneggiatore ha recepito dell’intera opera, ma proprio perché rappresenta un valore aggiunto che permette di apprezzare meglio la storia e di venire a contato con quei piccoli ma fondamentali dettagli che hanno permesso a questo libro di diventare importante tanto quanto (o più) della Bibbia stessa. Hunter Thompson sfreccia a bordo del Grande Squalo Rosso (una Chevrolet Impala del 1971) alla spasmodica ricerca del Sogno Americano, utopistico sentimento che nel corso dei secoli ha permesso all’America di ottenere l’appellativo di terra delle opportunità.

Quale città migliore di Las Vegas dunque, la città che non dorme mai, per cercare di constatare lo stato di questo stracazzo di Sogno Americano? Quando il libro venne pubblicato era il 1971, gli echi di Woodstock rimbombavano ancora nei sensi lisergicamente intorpiditi di una generazione che voleva cambiare il mondo ma che, ben presto, si ritrovò non solo con un pugno di mosche in mano ma anche con tutta la merda delle quali quelle bastarde si stavano nutrendo. Ecco quindi che Hunter Thompson /Raoul Duke e Oscar “Zeta” Acosta /Dr. Gonzo abbandonano il mantra del binomio di pace e amore della cultura Hippie per lanciarsi a capofitto e in modo fottutamente lisergico in un concetto più ampio, dove l’individuo dovrebbe farcela nonostante tutto e tutti.

In fin dei conti questo benedetto Sogno Americano non esiste più: andato, finito, fottuto, svenduto e ricomprato a pochi spiccioli su una bancarella dell’usato. Passeranno anche gli anni ma l’attualità disarmante di Paura e disgusto a Las Vegas continua ad essere dannatamente attuale. Tanto quanto la lisergica follia della sua trasposizione cinematografica che non deve offuscare l’importanza dell’opera letteraria. Che cazzo di trip.
Hank Cignatta
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