The Battle At Garden’s Gate: il ritorno maturo e supersonico dei Greta Van Fleet
Una cazzo di bomba rock. E’ la prima cosa che mi è venuta in mente ascoltando The Battle At Garden’s Gate, il secondo album dei Greta Van Fleet , band composta da quattro terribili “ragazzini” che sanno sicuramente il fatto loro e che hanno imparato egregiamente a districarsi tra la moderna disciplina olimpica della sterile polemica. Il gruppo composto dai fratelli Joshua, Jake e Sam Kiszka (rispettivamente voce, chitarra e basso) e Danny Wagner (batteria) è stato subissato fin dal suo esordio da molte polemiche che li volevano come una sorta di prestigiosa tribute band dei Led Zeppelin (band alla quale non hanno mai fatto mistero di ispirarsi).
Come sempre, i gusti sono gusti e non si discutono. Più triste invece risulta non riuscire a comprendere come i Greta Van Fleet siano davvero molto bravi nel fare quell’hard rock che si riteneva finito con i mostri sacri che sono riusciti a rendere questo sottogenere qualcosa di unico ed indelebile negli annali della storia della musica. Il talento, quello vero che non passa per mezzo di nessun talent, spesso si scontra duramente contro i feroci pregiudizi da parte di chi dovrebbe avere una certa capacità nel comprendere quanto sia complicato riuscire a far detonare il suono di una chitarra elettrica in tempi in cui tutti si improvvisano sedicenti (t)rapper e il talento, quello comune, viene sintetizzato in studi televisivi.
I Greta Van Fleet presentano un album più “maturo” rispetto a ciò che hanno pubblicato finora, dimostrando che possono essere i Greta Van Fleet senza necessariamente fare i Greta Van Fleet. In questo disco c’è tutto: padronanza del genere, un chiaro, non velato e per niente stucchevole omaggio alle sonorità e ai grandi gruppi che hanno reso immortale l’hard rock e un grandissimo carattere che sicuramente permetterà a questi ragazzi di fare molta strada, nonostante le critiche. Si parte con il calore tipicamente vanfleetiano di Heat Above, e si passa alle atmosfere 70’s di My Way, Soon. Si continua con la cazzutissima Built By Nations, che nonostante abbia una palese ispirazione zeppeliniana mantiene una sua identità ben precisa. Menzione a parte merita Age Of The Machine, un lisergico viaggio attraverso atmosfere musicali che non si sentivano da tempo e che fanno davvero ben sperare per il futuro. Il meglio i Greta Van Fleet lo lasciano per l’ultima traccia, vera e propria suite della durata di quasi nove minuti di assoli e schitarrate d’altri tempi per chiunque si sia stufato di sentire (anche controvoglia) i suoni che vengono proposti oggi. In sostanza un album cazzuto che suona davvero molto bene.
Probabilmente tutto quanto scritto sopra porterà ad un poderoso rovescio di bile da parte dei puristi del rock (o presunti tali) che stanno vivendo un brutto periodo della loro storia. Alcuni si ritrovano a lamentarsi di come le nuove generazioni non siano in grado di seguire le orme delle grandi star del passato (che, per inciso, se sono dei grandi e sono inarrivabili un cazzo di motivo ci sarà, no?) e non riescono ad ammettere come ci sia dell’ottimo materiale affinché il rock possa vivere una sua seconda primavera e smettere di essere un genere musicale che vive di gloriosi ricordi. Fatevi un favore quindi, alzate il volume e lasciate che a detonare nell’etere sia solo la musica, l’unica verità in un mondo di polemiche e di irritanti stronzate.
Hank Cignatta
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