Dynasty, la band funk che ha incendiato il groove
Sfreccio per le assolate strade di Nevrotic Town (o Torino, se siete appassionati di tennis) a bordo della mia fedele Great Point Blue Shark. Accanto a me la mia fedele cagnolona Noël, che mi accompagna come la migliore partner di un film d’azione anni Ottanta. Dall’autoradio si propagano le note di Love in Fast Lane dei Dynasty, band funk attiva dalla fine degli anni Settanta agli anni Ottanta. Mi lancio nell’attesa del semaforo verde a suon di funk mentre accarezzo la mia Noël che sembra gradire le coccole che le sto facendo dietro le orecchie. E quell’attesa prende una piega inaspettata.
Dynasty: il sogno funk della Solar Records che accese la notte di Los Angeles
C’è un momento preciso nella storia della musica nera in cui il funk, con la sua arroganza sexy e la sua fame di libertà, smette di essere una promessa e diventa una dichiarazione di guerra danzante. In quel crocevia di bassi profondi, sintetizzatori e desiderio di fuga nascono i Dynasty, una band che non voleva solo far ballare la gente ma farle credere in un sogno dorato: quello della Solar Records, la Motown del West Coast Funk. E sì, quel sogno brillava come una Cadillac in un parcheggio di Compton sotto il sole del 1979.

Los Angeles, 1979: la città delle luci e delle bugie
Negli studi della Sound of Los Angeles Records (SOLAR), fondata da Dick Griffey, c’è odore di vinili nuovi e di patchouli. Un uomo con la visione del profeta e il cuore da gangster gentiluomo. È lui che mette insieme una costellazione di stelle funk e soul: Shalamar, The Whispers, Lakeside e poi loro, i Dynasty.

I Dynasty nascono come un esperimento, un incrocio cosmico tra Leon Sylvers III, il genio del basso e delle produzioni della Solar, e due voci tanto sensuali quanto incendiarie: Kevin Spencer e Linda Carriere. L’obiettivo è quello di creare un suono che fosse il ponte perfetto tra il funk di strada e il pop da classifica, qualcosa che facesse muovere le anche e alzare il fatturato.

“Your Piece of the Rock”: la nascita del groove dei Dynasty
Il primo album, “Your Piece of the Rock” (1979), è un viaggio elettrico tra riff di chitarra, tastiere spaziali e linee di basso che sembrano uscite dal ventre della Terra. Il titolo stesso è una dichiarazione: Prenditi il tuo pezzo di roccia, come dire, È il tuo momento, cazzo, prendi tutto.

Brani come Satisfied o la title track ti catturano con quella miscela esplosiva di funk e disco, ancora intrisa della libertà degli anni Settanta ma già proiettata verso il futuro elettronico degli anni Ottanta. C’è un’energia sessuale, una potenza fisica nei suoni che non lascia scampo. È musica da club ma anche da rivoluzione privata.
Solar Records: dove il funk incontrava il lusso
La Solar Records non era una semplice etichetta discografica: era un culto. Griffey la gestiva come un impero spirituale fatto di luci stroboscopiche e contratti firmati con champagne. Tutti volevano un pezzo del suono Solar: un suono pulito ma sporco, elegante ma infuocato. I Dynasty incarnavano quella filosofia alla perfezione. Nel 1980 pubblicano “Adventures in the Land of Music”, il loro disco più famoso nonché uno di quei lavori che, se lo ascolti di notte con le cuffie giuste, ti riporta in una Los Angeles che non esiste più.

“Adventures in the Land of Music”: il capolavoro sottovalutato dei Dynasty
Questo album è un viaggio lisergico nel regno del funk cosmico. La traccia omonima è pura magia sintetica: tastiere liquide, groove vellutato e cori che sembrano sospesi nello spazio. Ma è con I’ve Just Begun to Love You (1980) che i Dynasty spaccano davvero: un brano che è sesso in vinile, una dichiarazione d’amore funky con un basso pulsante che ti scorre dentro come corrente elettrica. Il singolo raggiunge le classifiche R&B e rimane ancora oggi un punto fermo per chi conosce il linguaggio segreto del groove.
Non soltanto un disco ma un viaggio sonoro mistico dove c’è tutto: l’innocenza perduta del funk, l’ambizione dell’epoca d’oro della Solar e il tocco futurista di Leon Sylvers III, che maneggiava sintetizzatori come altri maneggiano pistole.

Gli anni Ottanta: tra sogni, successo e declino
Con l’arrivo degli anni Ottanta i Dynasty si trovano intrappolati nella stessa rete che ha stritolato molti gruppi funk dell’epoca: l’avvento del nuovo pop elettronico, l’egemonia di MTV e la fine dell’età d’oro delle band nere. I dischi successivi come The Second Adventure (1981), Right Back at Cha! (1982) e Daydreamin’ (1986) mantengono alto il livello, ma la magia comincia a svanire. Il suono Solar perde mordente, l’industria cambia pelle e il funk viene risucchiato dal pop sintetico e dal rap nascente. Eppure anche nei loro ultimi lavori, i Dynasty restano fedeli al loro spirito: groove sincero, eleganza urbana e sensualità non negoziabile.
L’eredità dei Dynasty: la febbre che non passa mai
Ascoltare oggi i Dynasty è come aprire una bottiglia di liquore dimenticata in un loft di Los Angeles. Ti arriva addosso tutto in una volta: il profumo dei club, il ronzio dei sintetizzatori analogici e le luci color rubino che filtrano tra il fumo. La loro musica è stata campionata da decine di artisti hip-hop e R&B come Camp Lo, Mariah Carey, 2Pac e molti altri, tutti sedotti da quella miscela di soul futurista e sensualità retrò. In fondo, è impossibile sfuggire al groove dei Dynasty: una volta che ti entra nel sangue, non ne esci più.
Gonzo Funk: viaggiare dentro la pelle del suono dei Dynasty
Scrivere dei Dynasty non è come scrivere di una band qualsiasi. È un’esperienza viscerale, quasi mistica. L’infilarsi in un universo dove ogni battito di basso racconta una storia di desiderio, sudore e libertà. È il funk che diventa racconto, il vinile che diventa giornalismo, la musica che si trasforma in viaggio. I Dynasty non erano solo una band: erano il riflesso di un’epoca in cui il sogno americano era una pista da ballo e la verità, per un attimo, si poteva trovare dentro un groove di quattro minuti. E mentre la notte di Los Angeles si chiude su se stessa, resta quell’eco morbido, sensuale ed immortale che ti sussurra ancora una volta: Don’t stop the groove, man. Never stop the groove.
Hank Cignatta
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