
Vivere e morire a L.A., il lato oscuro di Los Angeles
Benvenuti a Los Angeles, il girone dantesco con i neon
C’è un momento preciso in cui capisci che William Friedkin non stava semplicemente girando un film ma dissotterrando un cadavere e mostrandolo al sole californiano. Vivere e morire a L.A. (1985) non è un poliziesco, non è un noir e non è neppure un thriller d’azione: è una lama arrugginita infilata nello stomaco dello spettatore, un trattato sulla decadenza americana travestito da inseguimento in auto. Los Angeles non è mai stata così sporca, così sudicia, così “vera”. Non la città delle star, ma quella dei falsari di banconote, delle tangenti, delle strade bruciate dal sole. Una città che ti mastica e ti sputa senza neanche guardarti in faccia.

Poliziotti malati di adrenalina
Il protagonista, l’agente Richard Chance (William Petersen, noto in tempi recenti per aver interpretato il ruolo di Gil Grissom in CSI – Scena del crimine), non è un eroe. È un kamikaze con il distintivo, un poliziotto che ha trasformato la sua ossessione per la giustizia in una roulette russa giocata ogni giorno con i criminali. Quando il suo partner viene ucciso lui non cerca giustizia: cerca vendetta, sangue, riscatto personale.

Non c’è niente di pulito in Vivere e morire a L.A.: i poliziotti non sono migliori dei criminali che inseguono. Anzi, spesso sembrano peggiori. Friedkin non ci dà un appiglio morale: ci getta in un mare di squali e ci lascia nuotare con loro.

Willem Dafoe, il diavolo dal sorriso ammaliante
E poi c’è Willem Dafoe, giovane e diabolicamente bravo, che interpreta Rick Masters, falsario geniale e artista della truffa. È il cattivo perfetto: magnetico, elegante, maledettamente cool. Non ha bisogno di sparare subito: ti incanta, ti seduce, ti inghiotte. La sua presenza è ipnotica, e trasforma ogni scena in un duello di nervi. Dafoe non interpreta un cattivo: lo inventa, lo scolpisce per poi marchiarlo a fuoco nella memoria.
La sequenza che riscrisse l’azione al cinema
Ma il vero colpo di frusta arriva con l’inseguimento in auto. Friedkin, già responsabile della folle corsa di Il braccio violento della legge, qui si supera: un inseguimento contromano sulle autostrade di Los Angeles che ancora oggi è una lezione di cinema, tensione e follia. È pura adrenalina, un incubo a occhi aperti, il momento in cui capisci che questo film non vuole intrattenerti: vuole lasciarti col fiato corto, con le mani sudate e il cuore impazzito.
Synth, neon e sudore: la colonna sonora dei Wang Chung
Ciliegina maledetta sulla torta: la colonna sonora dei Wang Chung, un tripudio di synth anni Ottanta che si fonde alle immagini come una seconda pelle. Non è un commento musicale, è un’iniezione di sostanze sintetiche direttamente nel flusso sanguigno dello spettatore. Senza quella musica, Vivere e morire a L.A. sarebbe un film sporco. Con quella musica, diventa una trance urbana.
Perché vivere e morire a L.A. funziona ancora oggi
Oggi, in un mondo pieno di polizieschi patinati, Vivere e morire a L.A. resta un animale selvaggio e rabbioso. Non vuole insegnare, non vuole rassicurare, non offre redenzione. È il ritratto di una città marcia e bellissima e di uomini che ci vivono dentro come ratti in una discarica fatta di neon e dollari falsi. Chi lo guarda, lo capisce: non si tratta di un film. È una dichiarazione di guerra.
Hank Cignatta
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