Vaporwave, musica per ascensori del subconscio

Vaporwave, musica per ascensori del subconscio

Introduzione: La Vaporwave tra glitch, nostalgia e consumo estetico

C’è un posto nel web in cui gli anni Ottanta non sono mai finiti. Dove le statue greche piangono pixel, gli ascensori suonano colonne sonore sintetiche e il capitalismo si riflette in un tramonto rosa shocking su un mare digitale. È la Vaporwave, un genere musicale, estetico e concettuale che sembra nato in un sogno condiviso da un androide stanco di Amazon Prime e da un adolescente del 1993 intrappolato in un floppy disk. Che dite, rende vagamente l’idea?

Estetica Vaporwave

La Vaporwave non è solo musica: è un’esperienza sensoriale deformata, una satira del consumismo travestita da nostalgia, un revival che esplode in glitch e dissolvenze. È come guardare un vecchio spot della Pepsi su una TV CRT sintonizzata male, mentre una voce sintetica sussurra in giapponese qualcosa che non capiremo mai.

Origini della Vaporwave: tra ironia, alienazione e Internet

Il termine “Vaporwave” nasce intorno al 2011 su forum come Tumblr e 4chan, luoghi che erano al tempo stesso incubatori di cultura e fogne di idee malate. I primi nomi della scena — Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never), Vektroid (alias Macintosh Plus) e James Ferraro — erano pionieri inconsapevoli di una nuova estetica sonora.

L’album “Floral Shoppe” (2011) di Macintosh Plus è il Sgt. Pepper’s della Vaporwave: un collage di sample rubati da vecchie canzoni pop giapponesi e pubblicità d’altri tempi, manipolati fino a diventare un mantra ipnotico. Il suo brano simbolo, “リサフランク420 / 現代のコンピュー”, è l’inno non ufficiale di una generazione cresciuta nell’ansia da connessione perenne. La Vaporwave è la risposta ironica all’eccesso di modernità: un modo per ridere del consumismo mentre si balla sulle sue rovine digitali.

L’estetica della Vaporwave: il sogno sintetico

Il linguaggio visivo della Vaporwave è riconoscibile come un déjà vu tecnologico: colori pastello, tramonti digitali, palme, colonne doriche, busti di Apollo e scritte in giapponese fluttuanti nello spazio. È il ricordo estetico di un futuro mai arrivato, di un capitalismo promesso ma mai mantenuto.

Questa estetica è figlia del tardo capitalismo e del linguaggio pubblicitario degli anni Ottanta e Novanta, un’epoca in cui il futuro sembrava luccicare di plastica e neon. Gli artisti Vaporwave remixano quel linguaggio come un atto di sabotaggio culturale: lo svuotano di senso e lo trasformano in arte alienata. Guardare una cover Vaporwave è come infilarsi in un supermercato abbandonato illuminato da un’insegna al neon che lampeggia ancora: SALE 50% OFF.

Musica o manifesto postmoderno?

Dal punto di vista musicale, la Vaporwave è una forma di de-costruzione sonora: prende brani easy-listening, jingle pubblicitari, canzoni smooth jazz, li rallenta, li distorce e li fa evaporare in un eco di malinconia digitale. L’ascolto diventa un’esperienza ipnotica, con tutte le stranezze della dimensione onirica. Non c’è climax, non c’è tensione: solo un loop costante, come un ricordo che si ripete perché non si riesce a lasciarlo andare. È musica per ascensori del subconscio, per sognatori disillusi e per anime sospese tra passato analogico e presente iperconnesso.

La Vaporwave non vuole emozionare nel senso tradizionale: vuole far riflettere. È il riflesso deformato di un’epoca in cui l’estetica è diventata politica e la nostalgia un prodotto in vendita.

Capitalismo e decadenza: la Vaporwave come critica sociale

Dietro l’apparente leggerezza della Vaporwave si nasconde una critica feroce al capitalismo e alla società dei consumi. Ogni sample, ogni immagine rubata è un frammento del sogno americano che si dissolve nel glitch. Il termine stesso “Vaporwave” gioca con “Vaporware”, il nome dato ai prodotti tecnologici annunciati ma mai rilasciati — promesse non mantenute del capitalismo tecnologico. La Vaporwave è, di fatto, la colonna sonora di quel fallimento: un monumento al vuoto patinato del mercato globale. Ascoltare Vaporwave è come entrare in un centro commerciale chiuso da anni, con i corridoi ancora impregnati dell’odore dei profumi sintetici e della musica d’ascensore che non si ferma mai.

Evoluzioni e sottogeneri: dall’hotel al cyberspazio

Come ogni corrente nata su Internet, la Vaporwave ha subito mutazioni e ramificazioni incontrollabili.

  • Future Funk: la sua versione più danzereccia e colorata, piena di campioni disco giapponesi e di energia positiva;
  • Mallsoft: la deriva più concettuale, ambientata in centri commerciali vuoti e malinconici;
  • Hardvapour: la ribellione interna al genere, con sonorità industrial e cyberpunk, una distopia accelerata;
  • Broken Transmission: il lato più disturbante, dove frammenti di spot televisivi si fondono in un delirio post-umano;

Ogni derivazione è un tentativo di dare forma sonora all’ansia digitale di un mondo che vive online, tra cloud, nostalgia e connessioni fragili.

Vaporwave oggi: tra meme, arte e rinascita culturale

Oggi la Vaporwave è molto più di un genere musicale. È una cultura visiva globale, un’estetica adottata da brand, influencer e designer. Ma nella sua appropriazione commerciale c’è anche il suo paradosso: la critica al capitalismo è stata assorbita dal capitalismo stesso. Nonostante ciò, la Vaporwave continua a sopravvivere nei circuiti indipendenti, nei canali YouTube dimenticati, nei server Discord sotterranei, come una forma di resistenza estetica. È il linguaggio segreto di chi ha capito che il futuro non ci salverà, ma che possiamo almeno renderlo bello da guardare mentre collassa.

Conclusione: il sogno che evapora

La Vaporwave è il fantasma del futuro che ci era stato promesso, una carezza al neon che scivola via tra le dita. È il suono del capitalismo che implode lentamente, trasformando la pubblicità in arte e il dolore in estetica. Forse non è mai esistita davvero, o forse esiste ovunque: negli ascensori, nei vecchi VHS, nei tramonti digitali e nei cuori di chi si sente straniero nella propria epoca. In fondo, la Vaporwave non è altro che questo: un’utopia malinconica sospesa tra un mondo che non c’è più e uno che non arriverà mai.

Hank Cignatta

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