
The 20/20 Experience, il lusso sonoro di Justin Timberlake
Interno. Sera. Il mio appartamento. Fuori piove e finalmente non è quella pioggia che tira su solo l’afa di tutta questa rovente estate. La mia cagnona Noël mi guarda incuriosito mentre sono intento a mettere ordine nel mio casino casalingo, riempiendo sacchi pieni di roba che non uso più o che è uscita dalla mia vita ormai da tanto tempo. Mi imbatto nella mia collezione di cd musicali, che ho già accuratamente digitalizzato nei miei archivi, dove mi imbatto nell’album The 20/20 Experience di Justin Timberlake. Un album al quale sono affezionato, per via delle sue sonorità e per essere stato in grado di traghettarmi verso sonorità più ricercate e anche più vintage, facendomi appassionare ad altri generi musicali. Mi verso del whiskey giapponese Suntory, accendo il mio stereo, inserisco il cd nel lettore, metto play e lascio che accada la magia.

Una sbornia di velluto sonoro
Ascoltare The 20/20 Experience non è un atto banale. È come infilarsi in un tuxedo stropicciato dopo una notte passata a bere tre gin tonic di troppo per poi scoprire che, invece di puzzare di tabacco e rimpianti, emani un profumo da spot patinato d’alta moda. Justin Timberlake, con questo disco, non ha fatto solo un album pop: ha costruito un locale sonoro dove l’eleganza balla un tango ubriaco con la sensualità. Ogni brano è lungo, dilatato, spesso sproporzionato rispetto agli standard radiofonici: eppure funziona. È come se Timberlake avesse preso la nozione di “hit da tre minuti” e l’avesse infilata in una centrifuga fino a farla esplodere, consegnandoci suite pop che flirtano con l’R&B, il soul, l’elettronica e persino il prog.
Il viaggio dentro The 20/20 Experience
Il disco si apre con “Pusher Love Girl”, una dichiarazione d’intenti camuffata da serenata tossica, nel senso lisergico del termine. Timberlake paragona l’amore a una droga e non una qualsiasi, ma un trip elegante, servito in calici di cristallo. La produzione di Timbaland pompa come un cuore testardo che non vuole mollare.
Poi arriva “Suit & Tie”, che non è solo un singolo: è una passerella, il momento in cui Justin si cala nei panni dell’icona globale. Jay-Z fa il suo cameo ma è più un ospite a cena che il padrone di casa. L’attenzione è tutta sulla voce di Justin, che sussurra, gioca, accarezza il microfono come se sapesse di avere il mondo ai suoi piedi. La parte rappata di Jay Z sembra quasi stridere con quell’eleganza crooner che traspare dalla voce di Timberlake e dal video del pezzo. Ma questo è un parere personale, condivisibile o meno.
“Mirrors” è il colosso emotivo dell’album, l’otto minuti che sembrano infiniti per un brano relativamente moderno e che invece vorresti non smettesse mai. È pop mainstream vestito da confessione privata. È la canzone che fa piangere le coppie e che i single ascoltano alle quattro del mattino per sentirsi parte di qualcosa. Non cercate di nascondervi: vi vedo.
E ancora: “Don’t Hold the Wall”, tribale, sporca, ipnotica, come un rave elegante in un deserto africano.
“Strawberry Bubblegum”, lisergica e dolce, un cocktail fruttato servito in un club che non esiste. Ogni traccia è un esperimento vestito bene, una follia che non perde mai il controllo.
Timberlake, il Frank Sinatra dell’era digitale
Forse qualcuno a leggere il titolo del paragrafo avrà storto il naso. E sinceramente non me ne può fregare di meno. Quello che sorprende è la capacità di Timberlake di muoversi tra i generi senza sembrare mai un turista. Non si limita a visitare: colonizza. È il Sinatra che non fuma sigarette, ma manda DM su Instagram; è il crooner che non canta sotto un lampione, ma dentro un’arena illuminata da schermi LED. La sua voce è un’arma che passa dal falsetto angelico a un graffio animale, e in The 20/20 Experience la usa come un prestigiatore ubriaco che non sbaglia mai un colpo, anche quando sembra che la situazione gli sfugga di mano.
The 20/20 experience: Un album che si fa ascoltare, sempre
C’è chi dirà che The 20/20 Experience è troppo lungo, troppo gonfio, troppo megalomane. Ma è proprio lì che sta il bello: nella sua megalomania controllata, nel suo rifiuto di adeguarsi a un formato già scritto. The 20/20 Experience non è un album per ascolti distratti. È un invito a immergersi, a perdersi dentro suite di nove minuti che non chiedono permesso. E ogni volta che lo rimetto in cuffia o faccio librare nell’etere dalle casse le sue note, capisco che non è invecchiato. Ha ancora quella patina lussuosa e un po’ sporca, come un whisky di cui ti sei innamorato la prima volta e che non delude mai al secondo sorso.

Conclusione: The 20/20 experience e il lusso sonoro che non annoia
The 20/20 Experience è un tripudio di arroganza artistica e raffinatezza pop. È Justin Timberlake che si concede il lusso di ignorare le regole e, paradossalmente, lo fa funzionare. Non è un disco da tenere in sottofondo: è un disco che ti prende per mano, ti porta in giro, ti lascia steso sul divano con la sensazione di aver fatto un viaggio che non avevi programmato. E ogni volta che lo riascolto, sorrido. Perché è uno di quei rari album pop che hanno ancora il coraggio di essere qualcosa di più di una playlist per la palestra. È un’esperienza, come dice il titolo. E a volte, l’esperienza è tutto quello che serve.
Hank Cignatta
Riproduzione riservata ©
Post a Comment
Devi essere connesso per inviare un commento.