
Bollywood, storia psichedelica del cinema indiano
La Dani California del momento è accanto a me sul letto, intenta a guardare film indiani dalla trama amorosa e dai mille colori, con un sorriso a trentadue denti stampati sul suo viso dalla bellezza tutta mediterranea. Inizia a ballare sul letto accompagnata dalla mia cagnona Noël, la quale non capisce ma si adegua a quell’improvvisa euforia. Mi soffermo a pensare a quell’industria cinematografica indiana chiamata Bollywood, che ha creato divi e che ha introiti da capogiro. Ed ha così inizio il mio incuriosito viaggio all’interno di questa interessante realtà.

Il cinema che danza: benvenuti a Bombay, capitale dell’illusione
Non è Hollywood. Non è nemmeno il suo cugino povero. Bollywood è una creatura a parte, una bestia mitologica che sputa melodramma, colori saturi, coreografie impossibili e sentimenti a fior di pelle. Nasce a Bombay, oggi Mumbai, nel cuore pulsante dell’India coloniale tra vacche sacre, templi, prostitute, spezie, sudore e sogni spezzati.
È il 1913 e un certo Dadasaheb Phalke, tipografo e visionario, gira Raja Harishchandra, il primo film indiano. Muto, ovviamente. La pellicola ha un che di liturgico: un cinema che prega, più che recitare. L’India non ha ancora conquistato l’indipendenza, ma ha già scoperto il potere ipnotico delle immagini in movimento.
Così comincia l’odissea di Bollywood: un’industria mastodontica e allucinata che diventerà la più prolifica al mondo, con oltre 1.500 film all’anno, un culto transnazionale e un’estetica che viaggia tra il kitsch, l’epico e il pop psichedelico.
l boom degli anni ’40 e ’50: rivoluzione, melodramma e sogni in bianco e nero
L’indipendenza del 1947 è uno shock culturale. Il cinema diventa un’arma di massa: racconta l’India nuova, quella che si scrolla di dosso il giogo britannico ma resta impantanata in caste, povertà e contraddizioni infinite. Bollywood si riempie di eroi tragici, orfani virtuosi, madri sofferenti e criminali dal cuore d’oro.

È l’era di Raj Kapoor, il Charlie Chaplin indiano con baffetti e bombetta, che gira film come Awara e Shree 420, mescolando pathos e satira sociale. C’è una fame disperata di redenzione collettiva e Bollywood risponde con canzoni struggenti, lacrime a fiumi e colpi di scena più contorti di un trattato zen. Il pubblico piange e canta. Le sale sono templi. Il cinema è una religione laica dove Dio è un cantante playback.
Anni ’70: pistole, corruzione e l’ascesa dell’“uomo arrabbiato”
Il sogno post-indipendenza svanisce. L’India affoga nella povertà, nella burocrazia marcia, nelle rivolte studentesche. Bollywood muta pelle. Entra in scena Amitabh Bachchan, il “Big B”, icona dell’Angry Young Man, che incarna il disagio di un’intera generazione. I suoi film sono pugni nello stomaco: Zanjeer, Deewaar,Sholay. La giustizia diventa personale, e le canzoni cedono il passo a sparatorie e monologhi al vetriolo.
È anche il tempo della formula masala: azione, amore, commedia e melodramma shakerati in una sola pellicola. Tutto insieme, tutto troppo, tutto Bollywood.
Gli anni ‘90 di Bollywood: liberalizzazione economica e superdivi in technicolor
Nel 1991 l’India apre le gambe al capitalismo globale. Bollywood risponde con film più patinati, ambientati nei resort svizzeri o nei campus americani. I nuovi eroi si chiamano Shah Rukh Khan, Salman Khan, Aamir Khan – i Tre Khan della nuova mitologia pop.
Film come Dilwale Dulhania Le Jayenge o Kuch Kuch Hota Hai diventano manifesti di un nuovo romanticismo globalizzato, dove l’amore trionfa tra lacrime, elicotteri e sari che svolazzano su colline innevate.È un’epoca dorata, ma anche iper-commerciale: Bollywood si fa brand, invade i mercati esteri, colonizza i palinsesti di Dubai, Londra, Toronto. Il “desi dream” si esporta come un pacco di spezie in duty free.
Bollywood oggi tra femminismo, censura e Netflix
Nel nuovo millennio Bollywood si ritrova in bilico. Deve scegliere tra tradizione e innovazione, tra balli in costume e streaming on demand. Le nuove generazioni – più sveglie, più laiche, più politicizzate – chiedono contenuti più audaci, meno ipocriti, più vicini alla realtà.
Nascono pellicole come Pink, Article 15, Gully Boy, che affrontano temi sociali scottanti: patriarcato, razzismo, disuguaglianze. Bollywood diventa più femminile, più urbana ma anche più vulnerabile. La censura cresce, i nazionalisti minacciano gli attori “troppo progressisti” mentre i troll infestano i social. E poi c’è Netflix, che sdogana nuovi linguaggi, nuove facce, nuove storie che prima non sarebbero mai passate al vaglio della censura di Stato.
Bollywood non è un genere. È uno stato mentale
Chi cerca coerenza narrativa, sobrietà visiva o realismo psicologico, farebbe meglio a voltarsi dall’altra parte. Bollywood non è cinema d’autore. È cinema d’autosuggestione, una droga visiva da mandare giù con litri di mango lassi e chili di popcorn. È sogno collettivo, iperbole, mantra sonoro. È cinema come celebrazione, catarsi, eccesso. È anche una macchina industriale, che impiega milioni di persone, che genera PIL, che detta moda, che insegna a vivere (o morire) in playback. Ma soprattutto, Bollywood è l’India che si guarda allo specchio e, nonostante tutto, riesce ancora a sorridere.
Hank Cignatta
Riproduzione riservata ©
Post a Comment
Devi essere connesso per inviare un commento.