Yakuza, viaggio dentro la mafia del sol levante

Yakuza, viaggio dentro la mafia del sol levante

C’è qualcosa di perversamente romantico nel passeggiare per Kabukichō, il quartiere a luci rosse di Tokyo, quando la luna è alta e i neon si riflettono nei vicoli umidi. È qui che si respira l’essenza stessa della Yakuza, un mondo sotterraneo che non conosce mezze misure, fatto di uomini con occhi duri e sorrisi taglienti come lame.

Il quartiere di Kabukicho, il quartiere a luci rosse di Tokyo

Nascosto in bella vista tra i love hotel e i club karaoke, mi infilo in un bar minuscolo, una di quelle bettole dove l’unica legge è il rispetto. Mi accoglie un uomo che chiamerò “Takeshi”. Non è il suo vero nome, ovviamente, ma tutto il resto è fin troppo reale: la sua mano sinistra conta solo quattro dita.

Yakuza: l’origine misteriosa di una parola proibita

Il termine Yakuza affonda le sue radici in un mondo ben lontano dalla violenza e dalla criminalità organizzata a cui oggi lo associamo automaticamente. Si tratta, infatti, di una parola derivata dal gergo di un antico gioco d’azzardo giapponese, chiamato Oicho-Kabu, molto diffuso durante il periodo Edo.

Schema di gioco dell’Oicho-Kabu

La sfortuna nascosta nei numeri

Nello specifico, “Ya-Ku-Za” (八九三) rappresenta una combinazione numerica particolarmente negativa nel gioco: otto (Ya), nove (Ku) e tre (Za). La somma totale di questi numeri dà come risultato venti ma nel gioco Oicho-Kabu conta solo l’ultima cifra, lo zero, una mano sfortunata e priva di valore. Questa metafora perfetta della sconfitta e della rovina venne poi adottata ironicamente dai primi gruppi criminali per indicare la loro distanza dalla società rispettabile, sottolineando un’identità ribelle e un destino marginale contrapposto all’ordine tradizionale. Così, da una semplice combinazione sfortunata di numeri, è nato un termine carico di mistero, paura e fascino oscuro: Yakuza.

Un tatuaggio tipico della Yakuza

Il tatuaggio: Il marchio indelebile della Yakuza

«Il tatuaggio è un legame eterno», mi dice Takeshi mentre alza la manica della camicia bianca. Draghi, tigri e demoni danzano sulla sua pelle, storie intricate disegnate da aghi pazienti e precisi. È il curriculum vitae della strada, una dichiarazione d’appartenenza e di potere che brucia come brace sotto pelle. Un tatuatore Yakuza non è un semplice artista: è un custode di segreti, un narratore silenzioso che marchia l’anima di chi decide di entrare nel buio.

Sakè e rispetto: la cerimonia segreta

Takeshi ordina due sakè. Non è una bevanda qualunque. È l’elisir delle loro cerimonie segrete, dove l’onore si beve in piccoli sorsi. “Ogni brindisi è una promessa, e ogni promessa è un debito”, sibila guardandomi negli occhi. Beviamo lentamente, consapevoli entrambi che quel bicchiere non è solo sakè: è fiducia, rispetto, omertà. È l’ingrediente che cementa le vite degli uomini che camminano sempre sul filo del rasoio.

Io e Takeshi intenti a bere saké e a chiacchierare

Sake e gerarchie: anatomia spietata della piramide Yakuza

Takeshi tracanna l’ennesimo bicchiere di sake in quantità che in condizioni normali schiafferebbe al tappeto un bufalo adulto e con sguardo grave si china verso di me, abbassando la voce fino al confine del sussurro criminale. «Se vuoi capire davvero la Yakuza, fratello mio, dimentica i film di Kitano. Devi guardare alla struttura, alla piramide. Alla fine, tutto dipende dalla scala: chi comanda, chi ubbidisce e chi muore.»

Yakuza, Sotto la pelle tatuata della gerarchia

«In cima c’è il kumicho», continua Takeshi indicando con gesto teatrale il soffitto annerito del bar. «Il boss supremo, il padrino, chiamalo come vuoi. Lui decide la vita e la morte, beve champagne mentre gli altri si sporcano le mani. È lui che governa sulle famiglie e stringe mani impeccabili agli uomini d’affari.»

Al centro: Kenichi Shinoda, sesto ed attuale kumicho della più grande Yakuza del Giappone, la Yamaguchi-gumi

Poi, scivolando di un gradino più giù nella catena gerarchica, Takeshi accenna un sorriso inquietante. «Subito sotto, gli shateigashira, i luogotenenti. Fanno da ponte tra il boss e la strada. I loro tatuaggi sono più grandi e le loro Mercedes più nere. Ma sono anche quelli con la pistola sotto al cuscino e l’occhio sempre aperto di notte.»

Bevo per non sembrare fuori posto, mentre Takeshi prosegue nella spiegazione dell’organigramma della Yakuza. «Poi ci sono i kyodai, i fratelli maggiori. Comandano le truppe di soldati semplici, i kobun. Sono i cani che mordono e abbaiano per primi, carne da macello che guadagna gloria solo con cicatrici, pallottole e galera. Se sbagli un ordine loro pagano con un dito mozzato.»

Poi, con uno sguardo che lascia intendere la fine della lezione e l’inizio della notte, conclude: «Ma ricordati sempre che nella Yakuza, come nella vita, salire è difficile. Scendere, invece, è questione di un attimo.»

Il mignolo mozzato: Un errore pagato caro

Non posso evitare di fissare la mano mutilata di Takeshi. Lui se ne accorge, sorride amaro: «Un errore. Un solo errore». Mi spiega che nel loro codice, lo yubitsume, è l’estremo atto di scuse verso la famiglia criminale. Si taglia la prima falange del mignolo sinistro, sacrificando parte della propria carne per dimostrare dedizione e pentimento. «E se sbagli ancora?», chiedo con incauta curiosità. «Tagli ancora», risponde lui, fissandomi negli occhi. Il silenzio che segue dice tutto.

Criminalità, società e politica: un intreccio indissolubile

Non si può parlare della Yakuza senza toccare il potere. Politici, poliziotti, uomini d’affari: molti hanno stretto mani tatuate, hanno bevuto sakè con uomini come Takeshi. La società giapponese convive con questo segreto, un equilibrio instabile tra rispetto e paura. La Yakuza non è solo crimine: è politica, economia, è un’ombra necessaria che nessuno vuole davvero dissipare. E forse, rifletto, è questo il vero potere: essere indispensabili anche nella peggiore delle oscurità.

L’alba a Kabukichō: Fine o inizio?

L’alba mi sorprende ancora in giro per Kabukichō. Le luci dei neon sbiadiscono lentamente, i volti degli uomini che incrocio tornano a essere semplicemente stanchi, umani. Penso a Takeshi, alla sua mano incompleta, ai draghi che si agitano sotto la sua pelle. Forse domani tornerà nell’ombra o forse, chissà, emergerà ancora più forte e spietato di prima. Perché alla fine, la Yakuza non muore mai davvero. Resta nascosta, silenziosa, paziente, pronta a colpire ancora. E noi, spettatori impotenti, non possiamo far altro che aspettare il prossimo brindisi di sakè.

Hank Cignatta

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