E il settimo giorno il dio della strafottenza sonora creò i Queens Of The Stone Age
Nel lontano 1996 il dio del rock si ritrovò, per qualche strana ragione, in uno sperduto bar di Palm Desert, in California. Annoiato, iniziò ad ordinare Wild Turkey liscio a nastro. Uno dietro l’altro. C’erano tutti i presupposti per un mesto ma intimo incontro cinque contro uno in solitaria in una sudicia stanza di un motel nelle vicinanze quando una bellissima Dani California iniziò ad ammiccare nella sua direzione. Era bellissima: capelli neri, pelle di luna, un sacco di tatuaggi, un culo fatto con il compasso e negli occhi quel fuoco in grado di fare a pezzi il cuore dell’uomo più navigato. In un secondo gli fece battere il cuore sotto l’elastico delle mutande. Il dio del rock le se avvicinò, le offrì da bere ed iniziarono a parlare. Poco dopo i due andarono via dal bar e presero una stanza in quello sperduto motel. Scoparono come disgraziati per tutta la notte, abbandonandosi ad ogni più primitiva forma di perversione. In quel preciso istante sono nati i Queens Of The Stone Age, la più perversa e potente declinazione moderna del rock.
L’anima di questo frutto perverso dell’amore rock è Josh Homme, già famoso per aver fondato i Kyuss, band considerata tra le pioniere del cosiddetto stoner rock, scioltisi nel 1997. Fin dal loro primo omonimo album di debutto del 1998, i Queens Of The Stone Age gettano le basi per quelle sonorità ruvide e carta vetrate che caratterizzeranno il loro stile. Attingono molto dallo stile dei Kyuss, dei quali sono i naturali eredi nonché rumorosi e stilosi eredi.
La prima volta che ho sentito un loro brano era il 2002, durante il periodo d’oro di Mtv Italia. Canale che era ancora in grado di creare a suo modo cultura e di far entrare i contatti i giovani con musica ed artisti capaci di trasmettere emozioni. In rotazione c’era il video di No One Knows, il loro brano commercialmente più famoso, che mi si era incastrato malamente nelle sinapsi da diversi giorni. Ogni occasione era buona per canticchiare il ritornello di quel brano estratto da quel capolavoro che è Songs for the deaf.
Mi esaltai non poco nel vedere che nel video di quella canzone c’era anche Dave Grohl, ex batterista dei Nirvana e frontman dei Foo Fighters, che in quello stesso periodo stavano iniziano a piazzare hit ed album davvero niente male. Parliamo di un periodo decisamente più spensierato di quello attuale e dove il rock stava vivendo il suo ultimo periodo di splendore commerciale, prima di essere relegato a qualcosa di buono da usare in vecchi videogiochi o da esporre in musei, ahimè. L’inizio fu quella canzone, poi l’acquisto di Songs for the deaf. E niente fu più come prima.
Come sempre i gusti personali sono tali e non si discutono, ma per quanto riguarda il povero stronzo che vi scrive da li in avanti i QOTSA non hanno sbagliato un album. E neanche un brano. Neanche per errore. Loro sono fatti così: se ne fottono allegramente del politicamente corretto o chi storce il naso pensando che sono l’ennesimo strumento per far veicolare alle masse la musica del Diavolo. Sono un concentrato puro di potenza rock che ha il preciso scopo di scoperchiare il vostro impianto e di sciogliere le casse dalle quali si propagano. L’unico obiettivo è far muovere, anche in maniera disarticolata, chi li ascolta. E ci riescono fottutamente bene. Garantisce quella faccia da cazzo di Josh Homme.
Hank Cignatta
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