Una preghiera prima dell’alba, la cruda realtà della solitudine umana
Interno, casa mia, un giovedì sera qualunque. Mi butto sfatto sul letto, in cerca di un rapido intrattenimento per anestetizzare meglio le ore che mi separano da un nuovo giorno qui a Nevrotic Town. Punto il telecomando contro il televisore e in pochi istanti lo schermo illumina la stanza d’un immenso caos mediatico. Privo di qualsiasi speranza vago errando senza meta da un canale all’altro, in cerca di qualcosa che possa in qualche modo catturare la mia attenzione prima che perda completamente il controllo sulla mia persona e andando a dormire il sonno dei giusti. Il quadro è abbastanza deprimente: politici (o presunti tali) intenti a parlarsi uno sull’altro e ad insultarsi gli avi a vicenda, personaggi televisivi sul viale del tramonto impegnati ad estrarre l’acqua da una noce di cocco alla disperata ricerca della fama perduta e film di poco conto spacciati per prime tv assolute.
Rifuggo di gran carriera dai palinsesti offerti dai network televisivi nostrani riversando le mie misere speranze di trovare qualcosa di valido da guardare su iTunes. Sfoglio velocemente le varie categorie stabilendo probabilmente il record mondiale per il maggior numero di titoli filmici scartati nell’arco di un minuto. La mia attenzione viene però catturata da un film che presenta la locandina di quello che sembra un combattente di Muay Thai che ha in testa il Mongkon, il tradizionale e sacro ornamento indossato da ogni praticante di boxe thailandese. Film del 2017, tratto da una storia vera e con una cruda velleità documentaristica. Fin dai primi minuti il regista francese Jean- Stephane Sauvaire prende lo spettatore e lo butta letteralmente nel buio delle angosce del protagonista Billy Moore (interpretato da Joe Cole, visto recentemente anche in Peaky Blinders nei panni di John Shelby), pugile inglese dalla testa calda che combatte incontri clandestini in Thailandia. Moore dimostra un certo talento ma deve fare i conti con una profonda dipendenza dalle droghe (più precisamente con la Yaba, metanfetamina dai devastanti effetti psicologici) che gli procura una incriminazione per possesso di stupefacenti e lo sbatte letteralmente all’interno della difficile realtà del penitenziario del Nakhon Pathom Prison.
Da qui ha inizio il viaggio di Moore nel suo inferno thailandese alla disperata ricerca di quella redenzione che, inevitabilmente, lo cambierà. La narrazione di questo film non risparmia nulla allo spettatore, coinvolgendolo in prima persona nella quotidianità di un luogo in cui la vita umana vale meno di una stecca di sigaretta o delle uranistiche attenzioni di alcuni detenuti. Una preghiera prima dell’alba toglie il fiato come un diretto chirurgico dritto alla bocca dello stomaco, spiazza per la sincera fragilità di un uomo consapevole di essere andato incontro al proprio destino nella maniera più cruda possibile e manda al tappeto la noia di una serata che sarebbe stata solo una tra tante in attesa del potere taumaturgico dell’ennesimo fine settimana. Un film che è la riprova del fatto che il cinema è ancora un mezzo capace di emozionare. E cazzo, se sa emozionare.
Hank Cignatta
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